Invecchiare non è una malattia

Grandfather at the Beach with Grand Daughter on his Shoulders --- Image by © Tim Hale Photography/Corbisdi Roberto Dominici

Ogni specie vivente è soggetta ad invecchiare e va incontro ad un inevitabile processo di senescenza. Alcuni però lo fanno più lentamente di altri. Una sequoia vecchia di secoli è ancora in grado di produrre gemme vitali, ma noi, sebbene sembri strano, precocemente cominciamo a perdere cellule del cervello. A partire dai 30 anni il nostro cervello comincia a perdere, per un processo di morte cellulare programmata (apoptosi), un numero di neuroni progressivamente maggiore, fino a 50.000 al giorno ad età superiore ai 70. Dai 30 ai 75 anni il cervello perde fino al 10% del suo peso e fino al 20% del suo “rifornimento” di sangue; a 20 anni la memoria inizia a declinare. I neuroni diminuiscono ma le connessioni fra quelli rimasti possono rinfoltirsi.

Gli studi più recenti smentiscono l’assunto che l’invecchiamento si debba accompagnare invariabilmente a declino di tutte le funzioni  cognitive (es. memoria episodica vs semantica; capacità di analisi vs sintesi, etc). Vi sono anziani cognitivamente del tutto integri, o addirittura in progressione cognitiva rispetto all’età giovanile-adulta (fra i 70 e gli 80 anni almeno il 10% dei soggetti continua a migliorare, perlomeno in alcune funzioni cognitive).

Nell’invecchiamento si osserva una fisiologica modificazione delle funzioni cognitive: rallentamento nei processi di apprendimento, modificazione della velocità di esecuzione delle prove di performance e declino della memoria. Queste modificazioni sono stabili e non hanno un impatto funzionale poiché l’anziano normale riesce a compensare. Il segreto della longevità e dell’invecchiamento più lento si cela in parte nel DNA, come si vede nei gemelli omozigoti che hanno longevità spesso simili.

Ma la genetica spiega solo un terzo del quadro complessivo. Infatti gli stili di vita hanno un ruolo importante: natura e cultura concorrono insieme a stabilire la longevità per ciascun individuo. Escludendo la possibilità di potersi scegliere i propri genitori, le condizioni ambientali aiutano a posporre l’invecchiamento; la restrizione calorica (cioè il limitare l’assunzione di cibo) si è dimostrata efficace ma ancora non ne abbiamo dimostrato l’utilità per la nostra specie.

Sappiamo che la tuia, un arbusto comune nel nord degli Stati Uniti, cambia radicalmente la sua aspettativa di vita a seconda di quanto nutrimento ha a disposizione. Nei terreni più fertili vive circa otto decenni, ma in luoghi aridi, con ridotta disponibilità di risorse può arrivare ben oltre i 1000 anni.

Nell’ultimo secolo, il miglioramento delle condizioni socioeconomiche in molti paesi ha determinato un aumento della longevità umana. Ricordo che in Italia  oggi, l’aspettativa di vita per gli uomini e per le donne è rispettivamente di 79,4 e di 84,4 anni e diversi studi recenti hanno documentato la notevole capacità degli esseri umani nel prolungare la vita: si è dimostrato in particolare che nei paesi più longevi, la speranza di vita alla nascita ha conosciuto un miglioramento incredibilmente lineare a partire dal 1840 per arrivare ai giorni nostri, con un tasso di circa 3 mesi all’anno. Analogamente, si è dimostrato che il miglioramento nella longevità è stato ottenuto con una rapida e costante diminuzione della mortalità a ogni età.

Esistono poi altre ragioni inscritte nella biologia delle diverse specie. Le piante per esempio, per come sono fatte, non muoiono di cancro, nonostante le loro cellule si dividono moltissime volte, e siano quindi esposte ad un altro rischio di mutazione maligna nel corso dei processi di replicazione del DNA, non hanno la possibilità di diffondersi a tutto l’organismo e quindi di dare origine alle metastasi.

Negli essere umani oltre una certa età, il cancro diventa una delle principali cause di mortalità (circa il 25% degli anziani americani), contribuendo parecchio a ridurre l’aspettativa di vita. Un’altra caratteristica da evidenziare è l’enorme variazione individuale all’interno della stessa specie; l’aspettativa di vita prima che si inneschi il processo di senescenza definitiva può cambiare moltissimo da persona a persona. Dipende da alcuni geni che possono essere diversificati, ma anche lungamente conservati nell’evoluzione, dai piccoli nematodi (piccoli vermi lunghi 1 mm, molto studiati in Laboratorio ed in Biologia) fino a Homo Sapiens.

L’invecchiamento deve fare i conti con un bilancio che, quasi sempre, deve andare a somma zero. La fitness di un individuo, cioè la sua capacità ed il suo successo riproduttivo, sembra legata ad un doppio filo con l’invecchiamento, poiché in alcuni organismi si è notato che la capacità di cominciare presto a riprodursi è correlata alla longevità: “Vivi lentamente, muori vecchio” sembra questa una buona approssimazione del destino che ci ha riservato proprio l’evoluzione.

Non voglio tralasciare in questo breve articolo l’aspetto “politico” della questione; l’incremento del reddito pro capite allunga la vita, mentre l’aumento dell’aspettativa di vita è minore dove sono maggiori le disparità e le disuguaglianze di reddito all’interno della popolazione. Un tema che si collega perfettamente a quello di Expo 2015 “Feeding the Planet, Energy for the life”.

La nostra madre terra ci chiede di prendere subito provvedimenti per affrontare una delle sfide più importanti per il futuro dell’umanità.

 

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