di Francesca Radaelli
Un incontro che non ti aspetti, quello con Gianfranco Berardi. Lui è l’attore protagonista dello spettacolo ‘Io provo a volare’ in scena lo scorso weekend al Teatro Binario 7 di Monza. Al termine della rappresentazione di domenica sera, o meglio della splendida e applauditissima performance che lo ha visto impegnato sul palco in un testo in bilico tra poesia e comicità (scritto insieme a Gabriella Casolari cinque anni fa), l’attore ha incontrato il pubblico, ‘gettando la maschera’, come si dice in questi casi.
Un incontro che non ti aspetti, e ti lascia a bocca aperta per lo stupore e l’ammirazione.
Non solo e non tanto perché Gianfranco Berardi è un attore teatrale non vedente, e mentre parla e si muove sul palco tu, spettatrice della domenica sera, ti chiedi costantemente che cosa stia guardando. Che cosa vede te lo dice lui: “Vedo tutto bianco, sono troppo ottimista, non ce la faccio proprio a vedere tutto nero”.
Ti lascia a bocca aperta e rimani senza parole perché lui mentre parla te le toglie tutte, in un crescendo di comicità allegra, naturale e spesso irresistibile. Anche se lui è uno solo e non ti vede e tu non puoi evitare di guardarlo tutto il tempo, è lì davanti a te, ha tolto la maschera e tu te lo mangi con gli occhi, sei piena di curiosità e aspettativa.
Tu resti in silenzio, un po’ confusa. È lui che parla. E parla e parla e parla, irrefrenabile. “Centoquarantamila battute”, scherza sulla lunghezza delle risposte alle domande che gli vengono rivolte.
E ti fa ridere.
E allora capisci che quelle fantasmagorie del linguaggio, quei giochi di parole che sono anche giochi di idee e di immagini, quegli accostamenti che ti hanno colto di sorpresa e durante lo spettacolo ti hanno strappato risate che non credevi nemmeno di avere raccontano tanto, tantissimo della persona che poco prima ha dato loro voce.
Un attore che è entrato in scena sulle note di ‘Vecchio Frac’ e nei panni di un fantasma che prima era un custode di teatro e prima ancora un giovane sognatore di provincia che voleva essere attore in città, all’ombra del mito di Domenico Modugno. Un attore funambolico non solo nel linguaggio ma anche nel corpo, nel modo in cui si muove, in cui si appropria dello spazio del palcoscenico e lo fa suo, recitando – e rivisitando – l’Amleto o danzando sulle note delle canzoni di Modugno. “La cosa bella di essere non vedente”, spiega, “il vantaggio se sei un attore, è che ti stacchi dalla frontalità”.
Un vero mattatore, imprevedibile, comico, poetico e appassionato, uno che ti rapisce e ti conquista.
E ha ancora la voglia e l’energia per dialogare con gli spettatori dopo lo spettacolo. L’incontro era stato annunciato e in mezzo al pubblico è folta la rappresentanza degli studenti della Scuola delle Arti che non perdono l’occasione di confrontarsi con uno che ha provato a volare, che forse ci prova tuttora, che per lo meno il primo volo è riuscito a spiccarlo.
Gianfranco Berardi è simpatico, simpaticissimo.
Gianfranco Berardi ora scherza sulla sua cecità, dopo averne fatto un simbolo della propria storia personale e in parte della propria drammaturgia, dopo averla resa una metafora dell’Italia, di un popolo che preferisce non vedere piuttosto che affrontare la realtà e reagire.
“Se non avessi perso la vista non avrei mai fatto l’attore”, confessa, “ma sono convinto che il teatro c’era anche prima, dentro di me, da qualche parte”. La vista l’ha persa a 18 anni e mezzo, racconta. “Quando ti capita una disgrazia del genere che butta tutto il palazzo a terra, allora dici: sai una cosa? ora faccio quello che mi pare, faccio l’attore”.
Ma perché proprio Domenico Modugno? “Perché ci serviva qualcuno che richiamasse un’idea di rivoluzione, vera, che fosse contemporaneo, non innovativo, che parlasse dei problemi di sempre con le parole di oggi”. E poi per le suggestioni poetiche, le atmosfere che ci sono nelle sue canzoni da cui il testo dello spettacolo ha preso le mosse. “E poi perché per Modugno il teatro è un lavoro. Costante, coraggioso e convinto. Quotidiano. Lui che andava a suonare le serenate e con i quattro spiccioli che ricavava comprava un biglietto del treno per Roma e andava a passeggiare fuori da Cinecittà aspettando di essere notato da qualcuno di importante”. E poi Modugno ce l’ha fatta.
Lo spettacolo parla di un sogno, ma vuole parlare anche di ciò contro cui i sogni si scontrano, del mondo del lavoro, dei problemi che incontrano i giovani sognatori: “Abbiamo deciso di parlare del nostro, di lavoro, per essere cattivi, più ironici a anche autentici. Abbiamo voluto tirare anche qualche stoccata al nostro mondo che è davvero tutto uno stage, in ogni senso: inteso come palco di burattini, ma anche come possibilità di lavorare gratis e quante ore vuoi”.
Alla fine il protagonista non ce la farà, a differenza di Domenico Modugno.
Ma non per questo dovete perdervi d’animo e rinunciare ai vostri sogni, raccomanda al termine dello spettacolo Gianfranco Berardi, l’uomo che perse la vista e allora decise di fare l’attore.
“La nostra battaglia è contro l’invidia, la lamentela, il pessimismo, contro i mangiatori di entusiasmo”. Insomma, sembra dire l’attore al giovane pubblico del Binario 7: “Io a volare ci ho provato. Ora provateci anche voi”.
fotografie: © Compagnia Berardi Casolari