Di Paola Biffi
Si può dire che la banalità sia ormai una cosa banale, e così anche il modo in cui dalla banalità cerchiamo sempre di fuggire è scontato: per contrastare forse un po’ di conformismo, andiamo a scavare nell’assurdo per sentirci un po’ diversi, eccentrici, per avere qualcosa da raccontare.
E se la nostra banalità è stare alle regole civili, vivere nel giusto, diventare buoni cittadini, il carcere affascina proprio perché raccoglie, almeno nell’immaginario, tutte le trasgressioni, i “no” che crescendo abbiamo imparato a dire.
Il delinquente affascina perché è sbagliato, questa è una vecchia storia e, d’altra parte, non c’è romanzo, film o telenovela che nasca da una scelta giusta, no?
Da 4 mesi ormai sto partecipando, insieme ad altri miei compagni di corso, a un percorso promosso dal nostro Professore di Pedagogia Sociale: ogni venerdì mattina incontriamo per due ore un gruppo di sei detenuti della Casa Circondariale di Monza, ragazzi della nostra età, con cui chiacchieriamo, giochiamo a carte, ascoltiamo musica. Tra noi si è creato un rapporto di sincera amicizia, con pochi filtri, senza pretese, ci raccontiamo e mescoliamo le nostre storie di vita, è banale. Talmente banale che a chi me lo chiede, non so mai cosa raccontare, se non forse come si cucina una pizza in un forno costruito con tre fornellini da campeggio e carta stagnola.
Eppure in carcere si rivaluta la banalità.
C’è quella canzone che mettono sempre in radio e non sopporti più, o quella che ti piaceva ma che hai ascoltato talmente tanto che per un po’ basta, c’è quella canzone che ti viene in mente e la devi ascoltare per forza davanti al mare e vai su Youtube e ti viene il nervoso se non prende bene la connessione. Abbiamo chiesto ai ragazzi detenuti di dirci un paio di canzoni che avremmo messo su una chiavetta da ascoltare in uno stereo la volta successiva, perché in cella possono entrare solo cd nuovi, sigillati, che costano 25 euro. Per loro è stato come poter portare dentro finalmente il mare, una festa in discoteca, poter finalmente riascoltare una canzone che avevano in testa da mesi.
Un’altra volta ci hanno chiesto loro di portare una pinzetta, non possono tenerla in cella probabilmente perché può essere pericolosa, ma le sopracciglia folte sono brutte anche in gattabuia, e quando ricrescono si rischia di fare brutta figura ai colloqui del sabato.
Tra le chiacchiere e le parole di Marracash a volte emerge qualche storia passata, qualche progetto per il futuro, che ricorda a tutti noi che a mezzogiorno c’è chi uscirà da un cancello e chi entrerà nella cella, che se c’è davvero qualcosa di non banale è la libertà.
I miei venerdì hanno smesso di essere scontati quando ho capito che ciò che per me è banale non lo è per un altro.
Hannah Arendt parlava di “banalità del male” sostenendo che il male “può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla.”
Dobbiamo oggi evitare una “banalizzazione del bene”, che riduca la nostra quotidianità a una superficie piatta di giudizi preimpostati, di risposte già pronte, di storie costruite ad hoc per le emozioni che vogliamo provare.
Se è vero che non c’è romanzo che nasca da una scelta giusta, ci sono storie di vita reali nate da scelte sbagliate per le quali la delinquenza, il male, sono una banalità da cui fuggire, la vera trasgressione è il bene.