La colomba coreana

di Alfredo Somoza

La vicenda nordcoreana insegna parecchie cose sullo stato del mondo. Il poverissimo Paese asiatico, nel quale i cittadini sono condannati a vivere in una realtà virtuale ferma nel tempo e chiusa ermeticamente al resto del mondo, era il soggetto meno prevedibile in veste di negoziatore. E invece l’incontro con l’altra mina vagante della politica internazionale, il presidente statunitense Donald Trump, ha prodotto quello che molti definiscono un miracolo.

Il dittatore Kim Jong-un ha accettato di negoziare con Trump e poi con il proprio omologo – per modo di dire – della Corea del Sud, Moon Jae-in, il più interessato alla pace con lo scomodo vicino del Nord. Un conflitto nucleare nella penisola coreana porterebbe di sicuro alla scomparsa dalla faccia della Terra della capitale del Sud, raggiungibile anche a semplici cannonate dal confine con il Nord.

La trattativa ha avuto un quarto protagonista dietro le quinte, la Cina, che da molti decenni è l’unica certezza che ha la dinastia Kim per perpetuarsi al potere. Un’intesa non solo politica, ma anche economica grazie alla quale la Corea del Nord è riuscita a superare qualsiasi tipo di embargo.

Il processo di pace in Corea è diventato l’unico successo in politica estera spendibile dall’amministrazione Trump, che per il resto è stata incapace di incidere in Medio Oriente se non sbilanciandosi a favore di Israele, ha tentato di far saltare il faticoso accordo raggiunto tra USA-UE-Iran, si è guadagnata antipatie in Messico e ha alzato il livello dello scontro come mai prima con l’Europa e il Canada.

Questo unico successo è il segnale che, mentre sugli scenari che richiedevano abilità diplomatica Trump ha fallito miseramente, quando ha avuto a che fare con un dittatore dai tratti paranoici è riuscito a cantare vittoria. Ma sono gli Stati Uniti e la Corea del Sud i veri vincitori? Probabilmente no: il grande dividendo degli accordi sarà tutto a vantaggio del dittatore Kim. Il regime nordcoreano, infatti, ora ha un enorme potere di ricatto nei confronti di Paesi vicini e lontani, avendo concesso solo vaghe promesse di disarmo dell’arsenale nucleare. Kim ha detto di aspettarsi segnali di “reciprocità” dagli Stati Uniti, che probabilmente si tradurranno nell’allentamento delle sanzioni economiche o addirittura nell’erogazione di aiuti diretti.

L’obiettivo prioritario è stato però già conquistato: la Corea del Nord è uscita dal pugno di nazioni-paria a rischio di ritorsioni militari. È bastato il lancio di qualche missile sopra il Giappone per spostare gli equilibri a suo favore. Ovviamente negli accordi non si parla della natura del regime, dei diritti umani nel Paese-lager né delle colpe del dittatore, fino a poco tempo fa accusato di ogni nefandezza, tranne forse di cannibalismo.

È una lezione per il resto del mondo. La rispettabilità si guadagna arricchendo l’uranio, i grandi ti prendono in considerazione se fai il pazzo, i vicini ti rispettano solo se ti temono. Nell’Iran che ha smantellato, provvisoriamente, il suo programma nucleare si sente già l’eco della lezione coreana, con alcuni esponenti radicali del regime che proclamano «L’avevamo detto». In realtà non si tratta di una novità assoluta, anzi.

La storia del Novecento è ricca di esempi di questo tipo, ma questa logica si pensava archiviata e sepolta insieme a milioni di morti inutili. La faccia feroce paga in politica internazionale, e paga sempre di più anche in politica interna. Forti con i deboli e deboli con i forti. Kim Jong-un, il dittatore feroce e spietato, ora è candidato al Premio Nobel per la pace. La Realpolitik mondiale sta per sancire un nuovo condono, la politica di potenza è tornata prepotente.

 

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