di Francesca Radaelli
Vincere la povertà attraverso la cultura, intesa come educazione ma anche, e forse soprattutto, come relazione e scambio. Era questo il tema della tavola rotonda organizzata da Caritas e San Vincenzo di Monza lo scorso giovedì 22 febbraio all’Auditorium Sacro Cuore della Parrocchia Triante, nella cornice della Settimana della Carità. ‘Pane e parole’ è infatti il titolo scelto quest’anno per il ciclo di iniziative della prima settimana di quaresima. Sottotitolo della serata, una frase attribuita al filosofo Socrate: “Esiste un solo bene, la conoscenza, e un solo male, l’ignoranza” . Un tema impegnativo, quello del ruolo sociale della cultura, e forse ingiustamente relegato ai margini del dibattito pubblico e politico, quello pre-elettorale in primis.
Eppure nel territorio di Monza sono molte le realtà impegnate ogni giorno ad affrontare la povertà con gli strumenti della cultura. A rappresentarle, e raccontarle, sono stati i relatori della serata, a partire dalla dottoressa Maria Pitaniello, Direttore Casa Circondariale Monza, con cui hanno dialogato Pier Giovanni Bellomi della San Vincenzo Monza, Simona Ravizza dell’Associazione Antonia Vita, Monica Grassi di Spazio Colore, Laura Sala del Coordinamento Caritas Doposcuola Parrocchiali e Matteo Zappa di Caritas Ambrosiana.
La sfida, per tutti, è stata quella di rispondere alla domanda, formulata da Fabrizio Annaro, moderatore dell’incontro: la cultura può vincere la povertà? Le risposte di ciascuno non potevano che passare per il racconto di progetti, iniziative ed episodi legati alla propria esperienza di educatori e formatori.
Il detenuto che ha commesso i peggiori omicidi ma si vergogna a scrivere una lettera al direttore del carcere, perché non ne è capace. Il ragazzino che a 14 anni ha già commesso un numero impressionante di reati e viene ‘sbattuto’ fuori dalla scuola. La donna straniera che dipende in tutto per tutto dal marito perché non conosce l’italiano. La famiglia indigente che vorrebbe dare un futuro al figlio attraverso un percorso scolastico articolato, ma che non ha i mezzi per permetterselo. Il ragazzo che si vede sbarrata la possibilità di continuare il percorso dopo la scuola dell’obbligo perchè è rimasto troppo indietro rispetto agli altri.
Sono queste le persone a cui offrire una possibilità di riscatto attraverso la cultura, intesa come un bagaglio di conoscenze e competenze, che, come è stato sottolineato nel corso della serata, non è più da considerare come un sapere ‘statico’ e monolitico, ma è soprattutto una relazione, che passa attraverso l’incontro e lo scambio reciproco.
La cultura così intesa passa attraverso le borse di studio offerte dalla San Vincenzo per aiutare i ragazzi meno abbienti nel percorso scolastico, come ha illustrato Pier Giovanni Bellomi. Ma anche attraverso l’accoglienza del bambino ‘così come lui è’ negli spazi del doposcuola Caritas che, come spiegato da Laura Sala, “offre due possibilità di riscatto: nel presente, permettendo agli alunni in difficoltà di ‘rientrare’ nel percorso scolastico, ma anche per il futuro”. Ossia facendo crescere nei ragazzi la consapevolezza delle proprie potenzialità e aprendo porte su percorsi professionali che altre persone non avrebbero mai prospettato per loro. Senza dimenticare che il doposcuola offre un’occasione per sentirsi meno ‘poveri’ anche ai volontari che vi operano, e che sono spesso persone in pensione e ormai ‘fuori’ dal mondo del lavoro.
La povertà, come ha voluto sottolineare Monica Grassi di Spazio Colore, è una povertà comunicativa per le donne immigrate che ”non sapendo l’italiano non hanno la possibilità di esprimere se stesse”. Ma esiste anche una povertà ‘interpretativa’ delle donne italiane: “Leggiamo la realtà in modo molto parziale, tendiamo alla categorizzazione, ci facciamo condizionare dal pregiudizio che deriva dalla non conoscenza. Il percorso di volontariato arricchisce anche noi, perché ci permette di conoscere donne diverse da noi, di incontrarle e comprenderle in quanto donne”.
“La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo”, diceva don Milani. “Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale”. E la cultura, o meglio l’educazione, è un diritto di tutti. Lo ha ribadito con forza Simona Ravizza del Centro Antonia Vita: “Tutti hanno il diritto di imparare, secondo i loro tempi, spazi e modi di essere. Compresi i cosiddetti ‘disadattati sociali’ che spesso escono dal percorso scolastico. A loro noi cerchiamo di dare le gambe per proseguire”. Così, riuscire a portare un ragazzo ‘difficile’ a ottenere la licenza media non può che essere un successo. “Dopo qualche mese per questo ragazzo si sono aperte le porte del carcere”, ha raccontato Simona Ravizza. “Ma una volta agli arresti domiciliari si è iscritto alla scuola superiore serale. Senza licenza media non lo avrebbe potuto fare. Forse ne è valsa la pena”.
Del fatto che ne valga sempre la pena si è detta convinta la direttrice della casa circondariale Maria Pitaniello, che ha voluto soffermarsi sul ruolo educativo e riabilitativo del carcere, che deve tendere alla responsabilizzazione delle persone detenute, e non all’assistenzialismo: “Facciamo tutti lo stesso lavoro”, ha detto riferendosi agli altri membri della tavola rotonda. “Tutte le persone, hanno diritto di imparare, a tutte le età e anche se hanno commesso errori. E il carcere ha un ruolo educativo quando induce la persona a riscoprire talenti e inclinazioni, ad acquisire competenze nuove, ma anche semplicemente a rispettare le regole che scandiscono la vita all’interno della casa circondariale”.
Persone intelligenti e appassionate, quelle che si sono confrontate durante la serata, come ha sottolineato in conclusione don Augusto Panzeri, direttore di Caritas Monza. Persone che aprono finestre di riscatto attraverso l’educazione e la cultura. E che con le loro parole, durante la serata, hanno aperto finestre altrettanto importanti su realtà e iniziative non sempre conosciute che silenziosamente svolgono un lavoro prezioso per la società.
“Occorre valorizzare queste esperienze”, ha sottolineato Matteo Zappa di Caritas Ambrosiana, “metterle in circolo perché diventino sistema, perché generino davvero cultura. Non so se la cultura vince sempre la povertà, sicuramente ha gli strumenti per combatterla. E lo strumento principale è la relazione. Ossia un approccio educativo che sia in grado di valorizzare saperi e competenze di cui ciascuno è possessore”. L’invito agli educatori è anche quello di accogliere questa ricchezza, indirizzare i ragazzi verso un’autonomia maggiore nel percorso educativo. Anche – perché no – attraverso le nuove tecnologie.
“L’educazione è risvegliare nelle coscienze la verità che è dentro le coscienze, in modo che esse diventino capaci di ragionare da sè, di giudicare da sè, di farsi libere in un mondo in cui la libertà è un rischio, una conquista e mai un dato di fatto o un dono radicato”, scrive Ernesto Balducci a proposito di don Milani. La cultura a che cosa serve, dopotutto, se non a rendere davvero liberi? “Insegnanti e formatori sono dei testimoni”, ha concluso Matteo Zappa. “Occorre educare attraverso l’incontro, l’esempio, il come si è, prima ancora che attraverso il metodo d insegnamento”.
Le conclusioni finali sono affidate a Don Augusto Panzeri, direttore della Caritas di Monza, che non manca di lanciare una provocazione: “Spesso si parla di bisogni educativi. Non sono convinto però che sia davvero al bisogno che dobbiamo rispondere. Il rischio è quello di ragionare in modo consumistico, di dare spazio a ‘bisogni’ che sono solo presunti, ai falsi bisogni. Il rischio è che le persone non crescano per davvero. Penso invece che dobbiamo intercettare i desideri delle persone. Quando incontriamo i desideri, i bisogni si ridimensionano, si risolvono da sé. Incontrando i desideri si incontra la parte bella delle persone”. Forse è soprattutto per questa parte che può, e deve, passare la cultura che vince la povertà.