Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga….
La felicità, per Guido Gozzano, poeta torinese nato il 19 dicembre del 1883 e vissuto appena 32 anni, è una signorina neanche troppo bella. La signorina si chiama Felicita, a lei il giovane Guido dedica un poemetto intero, di oltre 50 versi. Nessuno sa se sia mai davvero esistita.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi
Di certo è molto diversa da un’altra donna, esistita davvero, quell’Amalia Guglielminetti a cui il poeta rimane legato per tutta la sua breve vita in un rapporto sentimentale complicato e altalenante.
Poetessa raffinata e sofisticata, Amalia fa parte di quella vita cittadina e mondana che il giovane Guido ama descrivere con ironia nelle sue liriche e da cui è costretto ad allontanarsi a causa della malattia – la tubercolosi – che segna l’intera sua vita.
Vive una breve esistenza da malato, Gozzano, crepuscolare come la definizione che viene data alla sua poesia. La ricerca di climi più favorevoli per la salute lo porta fino in India, ma la sua non è certo la vita avventurosa, inimitabile ed estetizzante di un Gabriele D’Annunzio, che all’epoca incarna il modello di poeta-esteta di riferimento tra i letterati. Anche sul piano poetico, Gozzano è molto diverso dall’autore della ‘Pioggia nel pineto’. Niente ‘estasi panica’ nei suoi componimenti, per intenderci, niente eccezionalità del poeta-esteta nei componimenti de ‘La via del rifugio’ o ‘I Colloqui’.
“Io mi vergogno, sì mi vergogno di essere un poeta”, dice invece, sommessamente, il poeta malato.
Perché, ed è facile immaginarselo mentre sorride nel dirlo e nello scriverlo, la poesia per lui si trova proprio nelle cianfrusaglie d’altri tempi, nei vecchi solai in cui sarebbe capace di trascorrere pomeriggi interi, nel rimpianto per un mondo che non c’è più.
È qualcosa di anacronistico come una signorina semplice semplice che sembra uscita da un quadro di Vermeer. Eppure è anche qualcosa in cui Guido non può fare a meno di rifugiarsi. Come in quell’idea di felicità impossibile e senza accento, nascosta in un’antica villa di campagna.
Francesca Radaelli