Madre, donna generatrice e nutrice, donna ribelle e anticonformista, dea e mito, il genere femminile indagato e rappresentato con tutte le contraddizioni nel corso di un secolo e mezzo, scandendo le battaglie, vinte e perse, le provocazioni, i dolori e gli eccessi. E’ uno spaccato affascinante quello che offre Massimiliano Gioni, curatore della Grande Madre (Milano, fino al 15 novembre). Uno sguardo ampio sulla storia del passato, quando era veramente difficile affrontare questi temi soprattutto da parte delle donne, unito a una panoramica molto interessante sull’arte del presente. Centotrentanove tra artisti e artiste occupano duemila metri quadri del piano nobile di Palazzo Reale.
C’è la vasta collezione di Olga Frobe-Kapteyn, ricercatrice di inizio Novecento, studiosa junghiana che negli anni Trenta del secolo scorso realizza un importante archivio di immagini sulla rappresentazione della divinità femminili in varie culture ed epoche. Un archivio, quello di Olga Frobe, composto da seimila immagini dell’archetipo della Grande Madre, la dea creatrice. Come Jung, anche lei credeva che “la forza di questi simboli rivelasse aspetti importanti della psiche”.
E’ profonda l’influenza della psicanalisi nel Novecento, nell’arte come in altre discipline. Sigmund Freud aleggia nelle sale della mostra milanese e lo si ritrova in moltissime opere. L’idea della maternità e della famiglia, dopo di lui,ha assunto contorni e forme molto meno rassicuranti.
Surrealisti, Dadaisti, Futuristi hanno declinato, secondo la loro sensibilità e visione, l’influenza del padre della psicanalisi, magari negandola o semplicemente accettandone la peculiarità come scriveva Edvard Munch: “La donna, in tutta la sua diversità, è un mistero per l’uomo.”
La Grande Madre non è solo excursus storico. Gioni rende omaggio a un altro grande curatore e critico, lo svizzero Harald Szeemann scomparso nel 2005, che altrettanto intrigato dal tema della donna generatrice avrebbe voluto realizzare a metà degli anni Settanta una rassegna su questo tema.
Lo racconta un libro di Pietro Rigolo “la Mamma” , edito da Johan & Levi. Szeemann realizzò invece la mostra ” Le macchine celibi”, enigmatica definizione di Marcel Duchamp. Da quella esposizione del 1975 arriva Erpice, macchina immaginaria creata dalla fantasia di Franz Kafka nel racconto “Nella colonia penale” , un letto di tortura che, in qualche misura, secondo Szeemann, rappresentava il rifiuto di riproduzione da parte del maschio.
A fronte della misoginia dei movimenti artistici del passato, le artiste hanno saputo coltivare in totale autonomia la loro creatività come Meret Oppenheim che già nel 1931 disegnò “Angelo strangolatore”, un acquarello divenuto una specie di amuleto contro la fertilità e, allo stesso tempo, emblema contro il ruolo predeterminato dalla storia e dalla società dato alle donne.
Sono quattrocento le opere che con diversa sensibilità visualizzano questi temi e il corpo umano diventa il simbolo di queste riflessioni. Lo è per Louise Bourgeois, Carol Rama, Niki de Saint Phalle, Kiki Smith, Pipilotti Rist, Marlene Dumas, Nathalie Djurberg. Opere spesso dissacranti e provocatorie.
Davanti alle quali, il pubblico, maschile e femminile indifferentemente, oggi come ieri, si sente messo in discussione.
Daniela Annaro