di Daniela Zanuso
Trasmette la straordinaria energia vitale di chi quotidianamente combatte la sua battaglia per il bene, per la verità e lo fa con quella passione che diventa il motore della sua stessa esistenza. Mi piace pensare che un po’ di questa vitalità l’abbia ricevuta in eredità dall’uomo con il quale lei ha condiviso tanti anni di lotta contro la mafia e le sue mostruosità. Lei è suor Carolina e l’uomo che il destino le aveva messo accanto è don Giuseppe Puglisi.
Ieri mattina suor Carolina ha portato la sua testimonianza ai ragazzi delle quinte dell’Istituto Hensemberger di Monza. Un auditorium gremito l’ha ascoltata in silenzio. E suor Carolina ha parlato dei sogni, delle speranze ma anche delle paure e della disperazione di don Puglisi.
”Un uomo, non un eroe – ha affermato – e mi piace pensare che se lui si è impegnato a cambiare un pezzo di mondo, lo possiamo fare anche noi”. E racconta di quando negli anni ’90 don Puglisi arrivò nel quartiere Brancaccio, un quartiere di Palermo che “faceva paura”, e si accorse che la maggior parte dei ragazzi non sapeva né leggere, né scrivere. “Al Brancaccio negli anni ’90 c’era solo degrado – racconta Suor Carolina – non c’era nemmeno una scuola media. Alla mafia fa comodo che la manovalanza del quartiere rimanga nell’ignoranza. Meglio che non imparino a pensare, meglio che non imparino a capire”. Vero, la cultura nutre l’anima, la mafia ha bisogno di persone che di anima non ne hanno.
E don Pino comincia la sua lotta. Apre il Centro Padre Nostro per strappare alla strada e alla criminalità i ragazzi di quel quartiere che, dopo la diffidenza iniziale, si lasciano coinvolgere. Vanno al centro per trovarsi, giocare, condividere il loro tempo con gli altri. E lì imparano il significato di parole come legalità, rispetto, valore della cultura. La mafia si sente minacciata da questo prete esemplare e iniziano i soprusi, le minacce, le prime prove di forza. Ma don Pino è irriducibile. Finché la mafia arriva a bruciare le porte di casa dei suoi amici. Un gesto che lui non accetta. Nell’omelia della domenica successiva, don Puglisi si scaglia con vigore contro i mafiosi e ha per loro parole di fuoco.
“Alla fine della messa gli chiedo – prosegue suor Carolina – ma non capisci che ti metti in serio pericolo?” lui risponde: “Cosa possono farmi? Più che uccidermi, cosa possono farmi? E sicuramente don Pino intendeva che era possibile, avrebbero potuto prendere la sua vita, ma non i suoi valori, non la sua anima”.
E così è stato: il giorno del suo 56° compleanno i killer si sono presentati davanti a casa sua. Un colpo alla nuca anticipato dal suo sorriso e dall’affermazione: “Me lo aspettavo”. Ma il quartiere ha reagito, ha detto basta. Salvatore Grigoli, il suo assassino, ha poi dichiarato che quel sorriso ha cambiato la sua vita. Si è pentito, è diventato collaboratore di giustizia.
Oggi sono molte le associazioni che nel quartieri proseguono l’opera intrapresa da don Puglisi. “Oggi il Brancaccio è cambiato, certo la strada è lunga ma l’importante – afferma Suor Carolina – è scegliere da che parte stare.
Ed è proprio questo il messaggio di don Pino Puglisi: uscire dalla zona grigia dell’omertà o, peggio ancora, dell’indifferenza. Fare qualcosa per contribuire a rendere migliore il nostro mondo.