di Marco Riboldi
Qualche giorno fa leggevo di un santo medievale, San Rocco, tra il 1345 e il 1379 di cui si tramanda che avesse la particolare grazia di intercedere con successo per la guarigione dei malati di peste. Certo è che nella sua breve vita fu a servizio di malati e sofferenti, contraendo egli stesso il male.
Da lì il pensiero è corso alla forza narrativa che questa terribile malattia ha in sé: ritroviamo descrizioni della peste in tanti scrittori, da Tucidide e Lucrezio, da Boccaccio a Manzoni.
La stessa tradizione cristiana mette la peste come simbolo della fine dei tempi, identificando in questa malattia il quarto cavaliere dell’Apocalisse.
Perché tanta forza evocativa? Certo la terribile capacità di sterminio che la peste aveva spiega molto: nelle statistiche sulla peste medievale (che sono senza dubbio attendibili quando si riferiscono comunità o gruppi sociali facilmente controllabili) si legge di alcune corporazioni che videro morire tutti i loro aderenti con le rispettive famiglie, o di ordini religiosi che in alcune zone scomparvero perché tutti i loro monasteri erano stati svuotati dalla malattia.
Nel 1630 circa un quarto degli abitati dell’Italia centro settentrionale morì nella peste manzoniana, con punte che in alcune città si avvicinarono al 70%.
Un altro aspetto che certo può contare è la caratteristica di universalità della malattia: l’appartenere a classi agiate o privilegiate, che avevano accesso a cibo, cure, condizioni di vita migliori non garantiva alcuna speranza particolare. Nella peste medievale, per dire, morì un terzo dei cardinali: la “livella” (“ ‘A morte ‘o ssaje ched”e?…è una livella”) della celebre poesia di Totò funzionava a pieno ritmo, travolgendo ricchi e poveri in misura simile. (*)
Ma credo che ci sia anche altro.
E qui chiedo soccorso a un autore, premiato con il Nobel per la letteratura, che mi è molto caro, Albert Camus, che alla peste dedicò il suo romanzo forse più celebre (assieme a “Lo straniero”).
La storia di tale romanzo è quella di una epidemia che si diffonde nella città di Orano, subito chiusa, intrappolando fra le sue mura le vicende umane più diverse: quelle degli atei e quelle degli uomini di fede, quelle dei bambini innocenti e quelle dei delinquenti, quelle degli innamorati e quelle delle coppie separate dal caso e dalla malattia.
Inutile che tenti di descrivere il libro: l’intreccio è lineare, ma le vicende che vi si narrano sono tante quante sono le sfaccettature dell’animo umano. La peste esplode, falcia le vite, poi si placa e scompare, ma proprio mentre la città festeggia la fine del pericolo, un uomo si mette a sparare sulla folla, senza motivo, facendo altre vittime.
Questo perché la peste può sparire, ma rimarrà sempre riposta in qualche remoto nascondiglio, pronta a tornare fuori con il suo carico di dolore e di morte.
E qui si capisce la metafora che ci investe.
La peste siamo noi, il nostro male che continuamente fa capolino quando meno ce lo aspettiamo: non esiste un mondo senza male, noi lo sappiamo e ne abbiamo paura, temiamo la nostra fragilità davanti al male fisico e al male morale, davanti alle mille pesti che ci minacciano ( Il romanzo “La peste” fu scritto tra il 1941 e il 1943, anche se venne pubblicato nel 1947, dopo un lungo lavoro: facile capire che le vicende di nazismo e guerra sono un’altra chiave di lettura del significato).
La peste non finisce mai: è sempre lì ad attenderci, in ogni epidemia, in ogni guerra, in ogni svolta storica che minacci la dignità della persona umana.
Però in ogni pestilenza troviamo un San Rocco o un Frà Cristoforo o un Cardinal Borromeo (**) che si occupa dei fratelli: è la autentica morale del romanzo, affidata alle parole del medico narratore.
Perché è vero che “ lui sapeva quello che ignorava la folla e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valige, nei fazzoletti, e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, sventura e insegnamento degli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi sorci per mandarli a morire in una città felice.”
Ma la lezione finale, osservando al dignità dell’uomo in lotta contro il male, é che
“Ci sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare “ .
Anche se le pestilenze ci sono, e sono troppe, val la pena di essere uomini.
(*) “ ‘A morte ‘o ssaje ched”e?…è una livella.
‘Nu rre, ‘nu maggistrato, ‘nu grand’ommo, trasenno stu canciello ha fatt’o punto
c’ha perzo tutto, ‘a vita e pure ‘o nomme”
trad.: La morte sai cos’è? …è una livella.
Un re, un magistrato, un grand’uomo, passando questo cancello, ha fatto il punto
che ha perso tutto, la vita e pure il nome.
(**) noi ne abbiamo avuti due: San Carlo Borromeo che si prodigò nella peste di fine 1500 e Federigo Borromeo, che invece fu attivo nella peste manzoniana. Nota locale: in via Zucchi, a Monza, si apre una piazzetta davanti alla chiesa di S. Maria degli Angeli. Si chiamerebbe piazza Achille Grandi, ma, a scapito del grande politico, tra l’altro fondatore delle Acli, nessun monzese DOC (e un po’ in là con gli anni) la chiamerebbe così. E’, per noi, la piazza del San Carlone, dalla statua che vi si erge, copia di quella originale logorata dal tempo e sostituita su meritoria iniziativa del Collegio dei Geometri di Monza. Sorge dove la leggenda vuole che una donna sia stata miracolosamente guarita dal santo cardinale in visita alla città.
Monza, 19 ottobre 2019