Alla vigilia di Expo 2015 si moltiplicano le riflessioni e le polemiche sulle caratteristiche che l’agricoltura dovrebbe assumere nel prossimo futuro per riuscire a sfamare i 9 miliardi di abitanti del pianeta previsti per il 2050. Secondo la FAO, la produzione mondiale di alimenti dovrebbe crescere almeno del 60%, riducendo però il consumo di acqua, di energia e di suolo. Un’impresa quasi impossibile, ci viene spiegato spesso da una certa scienza, a meno di non ricorrere in modo massiccio all’agricoltura OGM. Discorsi sterili e vuoti di significato, perché per decantare le virtù degli organismi geneticamente modificati si tirano sempre in ballo le banane arricchite o il golden rice alla vitamina A, che potrebbero debellare diverse malattie nei Paesi poveri, mentre il mercato delle sementi OGM offre solo commodities tradizionali destinate ai grandi produttori. Cioè soia, mais, grano, pomodori e patate: tutti rigorosamente di un solo tipo, trattabili solo con antiparassitari venduti dalla stessa ditta che ne detiene i diritti e incassa le royalties.
L’agricoltura, nata come attività economica durante la rivoluzione neolitica, si basa da sempre su una premessa: la sovranità dell’agricoltore sul suo prodotto. Nel mondo dell’agricoltura OGM, invece, i proprietari del lavoro altrui sono Monsanto, Dupont, Pioneer e non più i coltivatori. Contro questo stravolgimento lottano i movimenti contadini che rivendicano il diritto a produrre in proprio e a scambiarsi le sementi.
L’opposizione più seria all’agricoltura geneticamente modificata non si basa sui dubbi scientifici circa le eventuali conseguenze sulla salute dell’uomo o sull’ambiente, ma parte proprio da una riflessione sul modello agricolo. Il mondo OGM è costituito da grandi soggetti multinazionali ed espelle i contadini dalle campagne verso le città. Non prevede varietà né biodiversità, dunque espone l’agricoltura ad altissimi rischi in caso di comparsa di nuove malattie che colpiscano le poche specie coltivate. E non risolve il problema della fame, che non dipende dal tipo di produzione agricola bensì dall’accesso al cibo e dalla proprietà della terra.
Quali sono allora le alternative per far fronte alla sfida della sicurezza alimentare globale? Sicuramente bisogna cercarle nella tecnologia, intesa però come risorsa al servizio del bene comune. Oggi si lavora sull’agricoltura di precisione, in cui tutti i processi e i dosaggi sono ottimizzati per evitare gli sprechi, e si sviluppano interessanti tecniche come il miglioramento vegetale e la reintroduzione delle piante perenni.
Il miglioramento vegetale, o intercropping, consiste nel coltivare specie diverse una accanto all’altra, per lottare contro i parassiti in maniera naturale. La coltivazione alternata di carote e cipolle, per esempio, evita la proliferazione delle larve della mosca della carota senza bisogno di nessun tipo di pesticida. Questo nuovo approccio all’agricoltura può portare a un abbattimento fino all’80% della chimica usata nei campi, consentendo di fare ricorso ai trattamenti antiparassitari non più a scadenze regolari, ma solo in modo mirato e in caso di necessità.
L’altra faccia di questo nuovo approccio è la reintroduzione delle specie perenni al posto di quelle annuali. Il vantaggio è avere piante con radici più lunghe, dunque meno bisognose d’acqua e di fertilizzanti, in grado anche di rendere più stabile il suolo.
Oggi il neo delle piante perenni è che hanno una resa inferiore rispetto a quelle annuali, ma la scienza è al lavoro per selezionare varietà più produttive. In questo caso, per ottenere maggiore resa e qualità la ricerca genetica non si basa sull’inserimento di un gene in laboratorio, violentando il DNA della pianta, ma su criteri di selezione naturale, gli stessi che per millenni hanno guidato i contadini di tutto il mondo.
Insomma, se scienza e agricoltura collaborano, libere dalle pressioni delle multinazionali, allora la fame può essere debellata.
Resta l’altro tema, ancora più complesso, che riguarda l’accesso al cibo, cioè la possibilità di acquistarlo, e la questione della terra. Che ieri veniva sottratta ai coltivatori dai latifondisti, oggi dalle grandi multinazionali del land grabbing e dei biocombustibili, a discapito della produzione di alimenti. Una moratoria sui contratti di concessione di terreni agricoli, almeno nelle zone a rischio sicurezza alimentare, sarebbe un primo passo necessario.
Questi sono i temi sui quali si è chiamati a discutere durante Expo 2015, che si spera sia una manifestazione “OGM free” soprattutto a livello intellettuale. Perché la sfida della sicurezza alimentare non può essere affidata a un ramo dell’industria: è un’impresa che coinvolge anzitutto chi la terra la lavora e chi dalla terra trae il proprio sostentamento.