di Marco Riboldi
Il 27 gennaio, come si sa, è il Giorno della Memoria, che commemora la vicenda più tragica del XX secolo, la distruzione nazista degli Ebrei d’Europa, meditata, programmata e realizzata come nessun altro sterminio, per quanto disumano, e perciò non paragonabile ad altri.
Ogni anno ci interroghiamo sul significato di questa vicenda e su cosa ci insegni.
Ogni anno troviamo motivi per non dimenticare e per imparare.
Ancora la Shoah?
Qualcuno pone oggi questa domanda, come se il continuo racconto della vicenda potesse quasi “normalizzarla”, inducendo un sentimento di “già sentito” nocivo alla consapevolezza critica.
Non sono d’accordo, per almeno tre motivi.
Il primo è che ristudiare quel che è stato non finisce mai di chiarire alla nostra coscienza la necessità di ricordare perché non si ripeta. Ogni anno un nuovo racconto, una nuova testimonianza, un nuovo confronto storico ci aiutano a renderci più consapevoli.
Il secondo motivo è che noi abbiamo il dovere di raccontare alle nuove generazioni, sempre più lontane cronologicamente e psicologicamente dai quei fatti terribili. Dobbiamo conservare e trasmettere il ricordo, sempre più prezioso quanto meno numerosi diventano i testimoni diretti. Ciò che ci è stato raccontato deve diventare patrimonio di tutti i giovani.
Il terzo motivo è che non sono ancora terminati, anzi riprendono vigore, i tentativi di minimizzare, se non eliminare, la consapevolezza circa la veridicità di quei fatti. Sentir dire dopo tanti anni che le camere a gas e i forni crematori sono una montatura o quanto meno un’esagerazione, ci fa capire che il lavoro educativo non potrà terminare mai.
Non sono bastati i libri e le testimonianze, non è bastato conservare i campi perché la gente possa visitarli e rendersi conto, non sono bastati i tragici cumuli di occhiali, di valigie, di giocattoli che si possono vedere ad Auschwitz.
Ancora circolano opinioni negazioniste che, purtroppo, trovano anche ospitalità insospettabili.
L’indifferenza
La senatrice Liliana Segre ha portato l’attenzione di tutti sul tema dell’indifferenza, chiedendo anche che questa parola fosse riportata a grandi caratteri nel Museo dell’Olocausto a Milano (Binario 21).
Molti europei hanno collaborato allo sterminio, per mille motivi: paura, interesse, ignoranza, indottrinamento subìto.
Ma la maggior colpa della maggior parte degli europei fu l’indifferenza con la quale assistettero allo sterminio e, prima, alle persecuzioni e alle discriminazioni. La superficialità con cui si accettano le ingiustizie, le prepotenze, i soprusi, finché non ci toccano da vicino, è il seme velenoso che inquina la nostra vita sociale.
La celebre poesia-sermone del pastore antinazista Niemoller (“Quando i nazisti presero i comunisti, io non dissi nulla, perché non ero comunista. Quando rinchiusero i socialdemocratici io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico (…) poi presero gli ebrei e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero a prendere me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa”) rende bene l’idea di questa invasività dell’indifferenza e del rischio che comporta.
Davanti alle nuove sfide della storia possiamo dire di avere imparato a non essere indifferenti? Credo che questa sia la domanda, per così dire pedagogica, che la memoria della Shoah ci pone ogni anno.
Facciamo un esempio che può sembrar scontato, ma che forse può aiutare.
Oggi l’opinione pubblica, europea e italiana in particolare, si divide, anche molto nettamente, sul tema della accoglienza. Ora, voglio prescindere da ogni discorso sulla opportunità o meno di accogliere in modo largo gli immigrati: la questione è complessa e non può essere trattata “di scorcio” e parlando d’altro.
Ma fermiamoci alle condizioni degli immigrati trattenuti in Libia: qui, comunque la si pensi, non si possono chiudere gli occhi. Un intervento su questa questione è un dovere di italiani e europei: mi pare che troppo spesso si tenda a sottacere questo aspetto, che non può essere confuso con l’altro, più generale, della immigrazione. Qui siamo, nonostante le diversità con l’Olocausto, alla programmata crudeltà verso altri esseri umani.
Su questo, abbiamo imparato la lezione che ci viene dalla Shoah?
La storia siamo noi
Il dovere della memoria è anche il dovere di fare i conti con la nostra storia.
E’ il dovere di chiederci come sia stato possibile che nel cuore dell’Europa civile, colta e cristiana, sia nata la violenza dello sterminio.
E’ il dovere di chiederci come sia stato possibile che la nostra Italia, così normalmente accogliente e umana abbia sopportato le leggi razziali e poi la deportazione degli Ebrei verso i campi.
Non possiamo dimenticare queste terribili vicende perché, volenti o nolenti, sono parte di noi, del nostro ieri, del nostro domani.
E’ probabilmente giusto dire che forse gli italiani si comportarono in modo un po’ meno criminale di altri, almeno quantitativamente, ma, tranne pochi giusti, accettammo, con indifferenza alcuni, con malcelata soddisfazione altri, con attiva e spesso interessata partecipazione altri ancora.
E il nostro Stato ha nel suo passato le leggi razziali e la deportazione, il carcere di San Vittore per una Liliana Segre tredicenne e la Risiera di San Sabba.
Abbiamo fatto i conti con la nostra storia?
Tendenzialmente avrei detto di sì, fino a non molti anni fa, quando definirsi fascista o razzista o antisemita avrebbe causato un moto di ripulsa non solo in pubblico, ma anche in una qualsiasi conversazione da bar.
Oggi ho qualche timore e, mi si creda, non per astio partigiano verso questo o quello, ma per il clima di violenza che spesso si respira e che certa politica alimenta.
E visto che, almeno chi legge queste pagine, non faticherà a conoscere il mio orientamento politico di centro sinistra, mi affretto a dire anche che ogni anno provo una vergogna indicibile quando un manipolo di persone che si definisce di sinistra insulta la Brigata ebraica durante le manifestazioni del 25 aprile (non voglio e non posso qui parlare di quanto l’ostilità di molta sinistra verso lo stato di Israele mi sembri sproporzionata e del tutto avulsa da un ragionamento sulla politica, criticabile come tutte le politiche, del governo di Gerusalemme).
Ho raccolto qui qualche riflessione sparsa che mi è accaduto di fare.
Sono stato a visitare i lager: ho visto la cava di Mauthausen, che sembra tratta da una illustrazione dell’inferno dantesco; ho visto la gigantesca appelplatz di Dachau; ho sentito il vento soffiare tra i binari e le baracche di Auschwitz, dove pare ancora di sentire scendere da quei treni un popolo affranto destinato a morire.
Tutto questo è parte di noi, del nostro cuore, della nostra mente.
E allora, scusatemi la autocitazione, concludo con le parole che dicevo ai miei studenti quando finivo le lezioni sulla Shoah.
Abbiamo studiato queste vicende perché non solo sono successe, ma anche perché purtroppo succederanno ancora.
E se, quando succederanno, poche parole si leveranno con coraggio per opporsi, voglio che quelle parole escano dalla bocca delle mie figlie e dei miei ex studenti.
26 gennaio 2020