di Francesca Radaelli
“La speranza è un farmaco”. Il titolo del convegno organizzato in occasione della Giornata mondiale del malato dalla Caritas di Monza in collaborazione con l’ASST Ospedale San Gerardo, l’Unitalsi e la chiesa di Monza e Brianza. Il convegno, che si è svolto lo scorso 8 febbraio presso l’Ospedale San Gerardo, ricalca quello del libro scritto da Fabrizio Benedetti, professore di fisiologia umana e neurofisiologia all’Università di Torino.
Un’affermazione rivoluzionaria, perché da intendere nel suo significato letterale. “La speranza è un farmaco”, oggi, non è solo una metafora. Certamente la speranza e la fiducia aiutano ad affrontare ogni tipo di malattia in modo positivo, ma c’è di più. Come ha spiegato il professor Benedetti al pubblico del convegno, una parola di speranza detta da un medico a un paziente agisce sugli stessi meccanismi su cui agiscono alcune tipologie di farmaci, provocando effetti analoghi. Per alcune patologie, insomma, la speranza è davvero un farmaco.
“Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” è la frase del vangelo di Matteo scelta da papa Francesco per la Giornata mondiale del malato 2020. A ricordarla è stato don Enrico Tagliabue, parroco della Chiesa san Gerardo dell’ospedale di Monza, aprendo il convegno. Quindi sotto la conduzione di Fabrizio Annaro, la parola è passata a tre testimoni di ‘speranza’.
L’occasione di don Giampiero
“L’invito alla speranza è un invito a lasciarsi guardare nella malattia dallo sguardo di Gesù, uno sguardo che, in tempi in cui tutti corrono, non corre indifferente, ma si ferma e accoglie”, sottolinea don Giampiero Crippa, raccontando la propria storia. “Quando la malattia (un’insufficienza renale) si è aggravata, sono stato costretto a sottopormi a impegnative sessioni di dialisi durante il giorno. E allora la mia speranza, che prima consisteva semplicemente nell’attesa fiduciosa di un trapianto, ha fatto un salto di qualità. Segni di speranza ho iniziato a cercarli non più nel ‘dopo’ ma dentro la mia situazione presente”.
Determinanti, oltre alla preghiere dei salmi che lo hanno accompagnato durante la malattia, sono state le relazioni positive vissute con i medici – “guardavano me, non le carte, i referti, i monitor” –, con le persone vicine e con gli stessi superiori che gli hanno proposto spazi di servizio alternativi in cui continuare a vivere, pur nella malattia, relazioni significative con gli altri e per gli altri. “La situazione è occasione”, dice don Giampiero riprendendo le parole del cardinal Delpini.
La nuova vita di Donatella
E la malattia è stata un’occasione di cambiare il proprio sguardo anche per Donatella Di Paolo, la seconda persona chiamata a portare la propria testimonianza. Giornalista e madre di tre figli, sempre di corsa, è costretta a fermarsi quando le viene diagnosticato un cancro al seno: “E’ come se sulla tua vita cadesse una bomba”, racconta. La malattia toglie ogni certezza, ti senti esposta nella vita quotidiana: mentre sei con tua figlia tra la gente una folata di vento può farti volare via la parrucca con cui copri i segni della chemio. “Eppure la malattia scoperchia anche una forza inesauribile”.
Donatella racconta di medici che diagnosticano 90 tumori alla settimana e la trattano come ‘la paziente delle 15.30’ in un’agenda fitta di appuntamenti. Eppure la forza, la speranza, lei riesce a trovarla, la trova nei suoi figli. La cura va a buon fine, Donatella può tornare al lavoro. Ma decide che vuole dare un valore diverso al suo tempo: si dimette da Mediaset e si dedica al volontariato ad Haiti. La malattia per lei è stata un cambio di rotta: “Mi ha fatto capire che non puoi aggiungere giorni alla tua vita, ma puoi aggiungere vita ai tuoi giorni”.
Un nuovo dono per Vito
Infine il racconto di Vito Ascolese, che narra di uno degli incubi peggiori per un genitore: quello che lui ha vissuto quando a suo figlio di 15 anni viene diagnosticata una leucemia. “Mi sono ritrovato dentro un frullatore che gira all’impazzata senza diritto di replica”, racconta. “Il tuo mondo si sgretola, quando vedi tuo figlio che sta male e tu non puoi fare nulla”. La speranza Vito la trova nella fede, nell’incontro con don Enrico, che riesce sempre a far sorridere il suo Alessandro. E quando la situazione migliora e ci si può guardare indietro con serenità, le priorità sono cambiate: “Capisci che il dono più bello è poter vivere la quotidianità in modo sereno, e soprattutto condividerla”.
Effetto placebo: la speranza che guarisce
Quella di don Giampiero, di Donatella e di Vito è una speranza che permette di vivere nella malattia, di imparare dalla sofferenza e di donare alla propria vita un nuovo significato. Ma esiste anche una speranza che può addirittura guarire la malattia. È quella illustrata nella seconda parte del convegno dal professor Fabrizio Benedetti, sulla base di numerosi studi accademici: “L’interazione positiva con il paziente, la parola del medico, la prospettiva un miglioramento grazie alla cura che viene somministrata, in alcuni casi è essa stessa una cura”, afferma Benedetti. “Per il mondo della medicina molecolare si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma scientifico: il cosiddetto ‘effetto placebo’ è in grado di muovere nel cervello le stesse molecole su cui agiscono farmaci come la morfina o gli antidolorifici”.
Il professore illustra una serie di evidenze che mostrano come in alcuni pazienti – non vale per tutti, precisa – l’assunzione di placebo (ossia farmaci finti creduti però veri dal pazienti) attiva nel cervello la produzione di oppioidi e cannabinoidi in misura analoga all’assunzione di un medicinale: il paziente con una ferita al torace riuscirà così ad alzare il braccio più in alto, percependo il dolore in misura minore. Stesso effetto placebo è stato verificato per la dopamina in alcuni pazienti con il morbo di Parkinson: il placebo stimola una produzione di dopamina analoga a una dose di anfetamina, spingendo il paziente a compiere movimenti molto più veloci e reattivi rispetto a prima.
Analogamente, parole negative al momento della somministrazione di un farmaco hanno l’effetto opposto, rischiando di annullare l’effetto del farmaco stesso. Insomma: la qualità dell’interazione tra medico e paziente in alcuni casi è fondamentale non solo per mantenere l’equilibrio psicologico di quest’ultimo, ma per la riuscita stessa della terapia. Il fattore umano, o meglio il fattore ‘umanità’ può guarire.
Occorre precisare – sottolinea il professore in conclusione – che questo non vale per tutte le patologie. Le infezioni batteriche e i tumori non si curano con la speranza, né con l’effetto placebo. Molte malattie psichiatriche (depressione, ansia…) invece sì, così come anche il dolore fisico e il Parkinson: lo dimostrano gli esperimenti illustrati dal professore. In questi casi la speranza diventa un farmaco vero e proprio.