di Alfredo Somoza
Quando, il primo gennaio del 1995, sulle rive del Lago di Ginevra in Svizzera si inaugurava la sede dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, il WTO in inglese, il fenomeno che è stato definito “globalizzazione dei mercati” era al centro della politica mondiale. Il WTO nasceva da un dibattito cominciato nel 1986 con l’Uruguay Round, finalizzato a stabilire regole condivise per il commercio mondiale. Un percorso, quindi, partito quando ancora erano in vita l’Unione Sovietica e il blocco che a essa faceva riferimento.
Al WTO, istituito per regolamentare gli scambi dei Paesi del blocco occidentale, oggi aderiscono a pieno titolo 164 Paesi, mentre altri 22 hanno lo status di osservatori. E non partecipano solo i Paesi a economia di mercato, ma anche gli ultimi Stati che si definiscono socialisti, come Cina e Cuba, con la sola eccezione della Corea del Nord.
In realtà il WTO non ha svolto solo il ruolo di semplice regolatore degli scambi, ma ha contestualmente promosso l’apertura dei mercati mediante la rimozione di barriere doganali e protezionismi. Un approccio, questo, gradito anche ai Paesi ancora considerati del Sud del mondo che, per esempio, vedevano frapporsi una barriera inespugnabile tra il loro export agricolo e il grande mercato europeo o statunitense. Ma proprio sull’agricoltura il WTO ha registrato la sua prima grande sconfitta.
Nel 2001 viene lanciato il Doha Round per integrare maggiormente i Paesi del Sud del mondo nell’economia mondiale, agendo sul commercio di beni agricoli e servizi. Ma già nel 2003 il meccanismo si inceppa, con il fallimento del Vertice WTO a Cancún, in Messico. I Paesi non occidentali, infatti, si rendono conto che da un lato il WTO chiede loro di aprirsi alle merci e ai servizi “made in USA” o “made in Europe”, mentre dall’altro i mercati europei e nordamericani rimangono chiusi ai prodotti agricoli provenienti dal resto del pianeta: in USA e UE l’agricoltura continua a essere fortemente sovvenzionata e protetta dai governi. Alla prova dei fatti, proprio gli Stati che chiedevano di liberalizzare i commerci mondiali si oppongono a liberalizzare i loro mercati interni.
Il Doha Round è ormai moribondo: nel frattempo quei Paesi che hanno coalizzato il resto del mondo contro il blocco occidentale sono diventati protagonisti globali, dando vita al gruppo dei Paesi Brics e al G20 che, di fatto, ha preso il posto del G7. Ma il WTO non è scomparso. È rimasto soprattutto a fare da arbitro nelle controversie sugli Stati per quanto riguarda la validità degli accordi sottoscritti e i casi di dumping, cioè di concorrenza sleale attraverso prezzi bassi perché sovvenzionati dai governi. Sono migliaia le cause discusse in questi anni davanti all’organo di risoluzione delle controversie del WTO. Un tribunale vero e proprio, che dirime e impone multe e sanzioni interpretando gli accordi sottoscritti dagli Stati.
Uno dei Paesi più presenti nelle controversie è paradossalmente quello che, finora, ha ottenuto più vantaggi dalla globalizzazione: gli Stati Uniti. Washington ha promosso in questi anni 114 azioni contro altri Paesi, di cui 19 contro l’Unione Europea, ricevendo a sua volta 129 denunce per avere violato le regole del WTO, 33 delle quali da parte dell’UE. E gli Stati Uniti sono presenti come parte terza in altre 137 cause. Uno stillicidio di procedimenti, un meccanismo che fagocita i suoi stessi ideatori. E che dimostra come l’apertura mondiale dei mercati, che puntava a essere illimitata e a superare ogni ostacolo, nella realtà sia stata evitata centinaia di volte, usando strumenti che dovevano essere messi al bando.
Adesso il WTO rischia l’affossamento definitivo: pare che – come preannunciato – la nuova amministrazione statunitense stia cercando il modo di aggirare le sue normative, arrivando perfino a minacciare l’uscita dall’organizzazione. L’idea degli scambi commerciali di Donald Trump non è esattamente quella del movimento no global, che si batteva per un altro mondo possibile. Non è quella di un riformatore intenzionato a ridiscutere le regole affinché la globalizzazione sia un vantaggio e non un problema. Il suo è semplicemente il vecchio modello ottocentesco delle cannoniere: dividi i rivali, esercita la tua forza nel confronto uno a uno e porta a casa risultati vantaggiosi solo per te. America first, il resto del mondo si accomodi.