L’amico americano

di Alfredo Somoza

A Pechino circola la battuta secondo cui il migliore alleato dei cinesi sarebbe Donald Trump. Proprio il presidente che voleva punire la Cina per via del grande disavanzo commerciale che il Paese asiatico macina nei confronti della potenza americana, e che invece sta ottenendo l’effetto di far rivalutare a livello mondiale la politica cinese fatta di moderazione e toni pacati.

Quanti più tweet escono dallo smartphone fuori controllo del presidente USA, tanto più la Cina si mostra responsabile, favorevole alle aperture commerciali, partner affidabile.

In un momento di solidità del presidente Xi Jinping, appena riconfermato leader del Partito Comunista, gli alleati storici di Washington, Europa in testa, brancolano nel buio rispetto al futuro del multilateralismo. E questo non solo perché Trump sta facendo saltare uno dopo l’altro gli accordi faticosamente negoziati dagli Stati Uniti in tempi recenti, come quello con i Paesi del Pacifico e quello con l’Unione Europea; ma anche perché vuole ridiscutere o cancellare quelli già attivi, come il NAFTA con Canada e Messico. Il Paese pilastro della costruzione dell’economia di mercato globale frena, e lo fa lasciando a piedi i propri soci.

La politica zigzagante di Trump sta aprendo intere aree del pianeta alla penetrazione della grande potenza industriale asiatica. La Cina sta costruendo passo dopo passo la nuova Via della Seta per rinsaldare i legami commerciali con il resto del continente e con l’Europa, e intanto si dichiara interessata a subentrare agli Stati Uniti nel trattato TPP con i Paesi delle sponde americana e asiatica del Pacifico. Nell’Africa definita “un cesso di posto” da Trump, i cinesi consolidano la loro presenza economica e politica a tutto campo. Compratori, investitori sul mercato locale, prestatori degli Stati, alleati dei governi di qualsiasi colore. Ecco le loro armi vincenti.

Lo stesso accade in America Latina dove, oltre a essere già il primo partner economico per molti Paesi, la Cina si interessa ai destini del Messico che gli Stati Uniti vorrebbero isolare con un muro e ridimensionare all’interno dell’area NAFTA. Una manna inaspettata per Pechino, insomma, la presidenza Trump. Da cattivi della situazione, per via del dumping usato come politica di Stato, dei sussidi nascosti per favorire l’export, delle manovre sulla moneta, i cinesi sono passati a interpretare il ruolo dei salvatori della globalizzazione e della potenza affidabile. Non che questa trasformazione sia già avvenuta. Ma è quello che accadrà se Trump manterrà le sue promesse.

Prima o poi questa rivoluzione copernicana avrà ricadute anche su quei grandi gruppi multinazionali a stelle e strisce che oggi gioiscono per via dell’abbattimento fiscale di cui godono grazie a Trump, o per le promesse di condoni che consentiranno loro di rimpatriare gli utili parcheggiati nei paradisi fiscali. Se il mercato mondiale si rimpicciolisse, o peggio, se per via del principio di reciprocità le aziende statunitensi all’estero cominciassero a ricevere lo stesso trattamento che Trump vuole riservare agli investitori stranieri negli USA, il loro business sarebbe fortemente danneggiato. E il sistema economico statunitense non può più tornare a chiudersi entro i confini nazionali senza impoverirsi.

L’equazione con la quale Trump tenta di spiegare che le multinazionali hanno portato via lavoro agli statunitensi in realtà non è proprio vera: negli USA i disoccupati sono solo il 4% e in diminuzione. Il malcontento che ha permesso a Trump di pescare voti tra molti ex lavoratori dell’industria nasceva dal fatto che a chi ha perso il lavoro non è stata data l’opportunità di riciclarsi. Un tema considerato inesistente dai democratici che hanno voluto e gestito l’apertura dei mercati, e che ora gli Stati Uniti cercano di affrontare con ricette semplicistiche e autolesionistiche. Troppa schizofrenia politica per una potenza globale, che si traduce in una perdita di lucidità e di tenuta. Lucidità e tenuta che a Pechino invece abbondano.

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