di Daniela Annaro
Non sono in molti a conoscere Renato Mambor, rimasto nell’ombra nonostante le tantissime mostre in sedi importanti come le Biennali di Venezia, la Triennale di Milano, il Macro e la Galleria d’Arte Moderna di Roma. Romano della Tuscolana, Renato nasce nel 1936. Poco più che ventenne, casualmente, incontra Federico Fellini che lo scrittura come comparsa ne “La dolce vita”.
Lui ha già frequentato corsi di recitazione e, contemporaneamente, coltiva il suo amore per la pittura. Siamo negli anni Sessanta, Roma ,come il resto del paese, è un laboratorio spumeggiante di creatività e Mambor vive intensamente quella stagione così ricca. Frequenta set cinematografici dove viene a contatto con Pasolini, Totò, Aldo Fabrizi, Chet Baker. Si fidanza con l’attrice Paola Pitagora.
Ma allo stesso tempo partecipa a premi alla Galleria Nazionale di Roma, allora diretta da Palma Bucarelli , conquista la stima di prestigiosi storici e critici come, per esempio, Maurizio Calvesi, mentre tra i suoi amici ci sono artisti che diventeranno famosi come Mario Schifano, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Mimmo Rotella .
Una molteplicità di interessi, un’infinità curiosità come afferma lui stesso:
Ho voluto fare tutto. Danzare, cantare, scrivere, recitare, fare cinema, teatro, poesia, esprimermi in tutti i modi possibili, ma sempre in quanto pittore, perché dipingere non è un modo di fare , ma un modo di essere. E, nel tempo, mi sono cimentato in tutti gli ambiti in quanto pittore, sperimentando una qualità dell’esistenza.
E , forse, proprio questa pluralità di interessi lo ha reso poco catalogabile. Di fatto, spiega Dominique Stella, curatrice dell’ampia retrospettiva a lui dedicata a Milano alla Galleria Gruppo Credito Valtellinese (corso Magenta, 59),
Mambor appartiene alle tendenze pittoriche che animarono la scena romana degli anni ’60 e ’70. Ma la singolarità della sua opera, per la sua espressione radicale che mescola performance, fotografia, installazione, lo avvicina per diversi aspetti all’arte povera.
In mostra ci sono ottanta pezzi, dagli esordi negli anni Sessanta fino al 2014, anno della sua scomparsa. Ottanta opere all’insegna dell’eclettismo, utilizza la fotografia, il cinema , il teatro, le installazioni. C’è sempre il gusto della messinscena, privilegiando , però, la riflessione sul tema realtà/finzione. Mambor non abbandona mai l’immagine. Offre elementi, segni e codici, grazie ai quali lo spettatore può interpretare l’opera. Immagini apparentemente banali, decontestualizzate, per evitare qualsiasi emozione. Nel 1967 crea L’Evidenziatore, oggetto meccanico simile a un granchio con potenti chele destinate a afferrare il reale. Qui sopra L’Evidenziatore con la sagoma di un uomo senza volto, un Osservatore, ciclo di dipinti a cui seguiranno il Riflettore, il Pensatore, il Mediatore. Soggetti e tematiche frutto delle sue riflessioni sul pensiero del filosofo francese Merleau-Ponty. Una ricerca per “ritrovare nell’occhio, lo sguardo che raggiunge la coscienza”