Le sfide per i diritti umani

di Martina Landi – Responsabile Redazione Gariwo

Alla vigilia delle elezioni europee, abbiamo deciso di parlare del ruolo dell’Europa nella difesa dei diritti umani durante la seconda edizione di GariwoNetwork, in programma il 29 novembre ai Frigoriferi milanesi.
Ad approfondire questo argomento sarà Marcello Flores, storico, già docente all’Università di Siena

e direttore del Master Europeo in Human Rights and Genocide Studies. Lo abbiamo intervistato.

Se oggi si pensa ai diritti umani, molti hanno la percezione di un affievolimento della sensibilità su questo tema. Si tratta di una percezione realistica?

Oggi ci sono due percezioni dominanti. Una è il fatto che emergono, soprattutto sui social network, atteggiamenti di rifiuto di attenzione ai diritti, di cinismo o – seppure in modo più circoscritto – di rivendicazione della bontà della violazione dei diritti. Tutto questo è dovuto alla trasformazione che abbiamo visto negli ultimi 2 o 3 anni nei social, dove le cose che prima molti pensavano, ma avevano ritegno a dire, oggi invece sono diventate la normalità. Tuttavia, non credo che automaticamente questo significhi un aumento di violazioni dei diritti. Certo è qualcosa di preoccupante, e ritengo quindi che occorra pensare a nuove strategie comunicative, perché il linguaggio e gli strumenti usati in passato evidentemente non funzionano più.

C’è un altro aspetto però, che riguarda invece chi lotta per i diritti umani, ed è la convinzione che ci troviamo in una fase di regressione dei diritti molto forte. Io credo che questa sia una percezione sbagliata, perché se guardiamo complessivamente la situazione dei diritti umani, è certamente piena di violazioni, ma non è peggiore rispetto a quella di dieci, venti o trent’anni fa. Il fatto che si abbia la sensazione di fare passi indietro porta a un conseguente arroccamento che però è solo la proclamazione della necessità di quei diritti a essere tutelati, senza riuscire a immaginare azioni alternative per farlo.
È quindi necessario da una parte fornire un’informazione diversa e alternativa in grado di scalfire queste percezioni, e dall’altra inventarsi azioni concrete.

Anche per questo tipo di informazione, serve oggi un linguaggio nuovo…

Assolutamente sì. Questo è vero anche per noi storici. Spesso ad esempio viene ripetuto il parallelo tra la situazione storica attuale e gli anni ’30 con la nascita del nazismo. Che ci siano aspetti culturali profondi molto simili, è innegabile e chiarissimo. Questo però rischia di far dimenticare quanto sia ancora forte e radicata una cultura, sia pure in crisi, di democrazia e di diritti che evita, ad esempio, che Trump possa diventare come Hitler.

Quanto di questa situazione è dovuta al ritorno di fenomeni come sovranismo e chiusura nazionale?

Sinceramente, non credo che prima la situazione fosse molto diversa, se non a livello di discorso pubblico. Se infatti andiamo a vedere il numeri degli aiuti, l’Italia ad esempio non ha mai raggiunto gli impegni che aveva preso a livello internazionale o che Europa e Onu le avevano chiesto. Oggi c’è solo la giustificazione, quasi l’orgoglio, di non occuparsi degli altri facendo leva sulla crisi presente.
Ancora una volta, è necessario mettere in gioco un meccanismo di informazione e comunicazione nuovo. Le risposte che si danno oggi risuonano come un volontarismo morale che non funziona. Sicuramente, è fondamentale partire dal fatto che la globalizzazione esiste e non può essere cancellata. Può essere sicuramente modificata, ma in un mondo in cui siamo ormai così interconnessi, occorre far capire che ogni soluzione si costruisce necessariamente partendo da questo presupposto.

A questo proposito, qual è oggi il ruolo delle istituzioni internazionali?

Sono circa 30 anni che si discute di una riforma delle Nazioni Unite. Questo perché purtroppo il momento storico e la modalità con cui si è costruita l’Onu rendono quasi impossibile, soprattutto ora che l’Organizzazione è cresciuta così tanto, riformarla senza un accordo fra tutti.
Credo però che andrebbe anche qui sottolineato nell’informazione il lavoro che l’Onu ha fatto per fare in modo che oltre all’Iraq, alla Siria, alla Libia, non ci fossero tanti altri conflitti.

Certo, resta irrisolto un problema importante, quello del potere di veto nel Consiglio di sicurezza. Negli ultimi quindici anni abbiamo visto interventi bloccati da un veto, così come iniziative autonome di uno o più Stati al di fuori dello stesso Consiglio di sicurezza. Oggi si sconta la prevalenza di un’ideologia sovranista, mentre occorre cercare risposte internazionali.

Un discorso simile può valere anche per l’Unione Europa: ha garantito la pace nel continente, anche se non è riuscita a fermare il conflitto in Jugoslavia. Alla vigilia delle elezioni europee, quali interventi sul ruolo dell’Europa nella difesa dei diritti umani sono più urgenti?

Io penso che sia fondamentale il discorso su un esercito europeo e su una forza di intervento rapido dell’Europa per le situazioni umanitarie. Né l’Italia, né Polonia, Ungheria o Olanda vogliono intraprendere questo percorso, ma ritengo che sia l’unica strategia possibile. Si tratta quindi di proporlo e insistere su delle idee, ragionando e lavorandoci insieme.

In questo scenario, quali sono le sfide principali sul tema dei diritti umani oggi?

Credo che esistano tre questioni fondamentali.
La prima è che c’è stata una ripresa del dibattito – nato insieme alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 – che si chiedeva se il discorso dell’universalità dei diritti umani fosse una sorta di imposizione della cultura occidentale sui diritti a tutti gli altri Paesi. Ci sono state in passato molte polemiche, che continuano a esserci anche oggi; anche molti attivisti sostengono questa tesi. Bisognerebbe provare a ragionare su questo quesito, tenendo presente che sui diritti fondamentali non c’è una grande differenza tra le culture ma forse solo sui costumi e tradizioni culturali.

Una seconda cosa è che viene messa molto in evidenza – e alcuni la vedono come un fallimento della cultura dei diritti umani – l’incapacità di riuscire a intervenire sulle diseguaglianze sociali. Mentre è più facile difendere i diritti civili e politici, i diritti economici e sociali vengono sempre più abbandonati a loro stessi. Siccome molti dei critici che sottolineano questo aspetto sostengono che la cultura dei diritti umani è anch’essa in parte responsabile perché si sarebbe allineata con il neoiberismo, credo che questo sia un altro terreno di approfondimento per cercare di capire cosa significa effettivamente oggi la globalità dei diritti e il suo significato in ogni singolo aspetto. Tenendo presente che i diritti umani sono sempre il risultato di battaglie politiche, e che quindi la politica è sempre fondamentale per avanzare o fermare o arretrare.

Il terzo punto è che oggi, nonostante la cultura dei diritti umani si sia affermata e consolidata, siamo in presenza di una crescente contrapposizione tra diritti: tra libertà di opinione e negazionismo, tra salute e lavoro, tra sovranità nazionale e diritto internazionale, tra sicurezza e libertà. In questo conflitto tra diritti, spesso la politica sceglie la via di una “gerarchia di diritti”; che rischia di fatto a portare a una negazione sia pure temporanea di alcuni diritti in nome di altri, mettendosi così la coscienza a posto. Ragionare anche su questo punto è importante, soprattutto in Occidente o dove la cultura dei diritti umani è consolidata.

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