L’incubo della maturità

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di Lello Gurrado

Si svegliò di soprassalto e, senza rendersene conto, si ritrovò con gli occhi sbarrati e il busto eretto. I gomiti erano puntati sul materasso, la fronte era imperlata da gocce di sudore. Lanciò, ancora senza volerlo, un urlo angoscioso e acuto, come nel più classico dei film horror.

Si scosse, allungò il braccio verso il comodino, accese la luce e guardò l’ora. Le tre e un quarto. Come la notte precedente, e quella prima e quell’altra prima ancora. Erano quattro notti che si svegliava esattamente alle tre e un quarto, spaventato, sudato e tremante.

Quattro notti che il pensiero della maturità gli negava il sonno.

Quegli esami erano un vero e proprio incubo, mai definizione era stata più appropriata.

Lasciò la luce accesa, si alzò, andò in bagno a lavarsi la faccia e togliersi il sudore di dosso. Si guardò allo specchio e trasalì nel vedere quanto erano diventate profonde le occhiaie. Profonde e nere, nerissime. Rimase qualche secondo con le braccia tese sul bordo del lavandino, poi si scosse. Tornò a letto, si sdraiò a faccia in su, spense la luce e piano piano sentì il cuore che riprendeva il suo ritmo normale.

La mente no. La mente continuava a essere in tumulto. Un tumulto di pensieri e di paure.

Mancavano ormai poche ore. Cinque ore e poi sarebbero finalmente incominciati gli esami di maturità. “Non ce la faccio” pensò infantilmente. “Non arriverò vivo alla prova di italiano”.

Se per tutti gli studenti del mondo la maturità è effettivamente uno spauracchio, per lui rappresentava qualcosa di ancora più drammatico, di tragico addirittura.

Immaginava la scena. Erano giorni e notti che vedeva davanti ai suoi occhi i banchi allineati nei corridoi, come fossero barelle nelle corsie di un ospedale, gli studenti pallidi, in preda al panico, i professori arcigni e severi come fossero carcerieri.

Poi l’attesa, la lunga snervante attesa dell’ingresso della corte. Sì, la “corte”, incaricata di leggere la sentenza: le tracce spaventevoli del tema di italiano. Un incubo.

Quali tracce daranno oggi? Che cosa avranno deciso i sapientoni di Roma, la ministra e i suoi collaboratori? Storia? Economia? Letteratura? Oppure il sociale? O un tema politico?

Un tema valeva l’altro. In ogni caso ci sarebbero stati sguardi di odio verso i professori e maledizioni rivolte ai commissari d’esame. Ne ebbe paura. Era un tipo superstizioso e sapeva che le maledizioni, quando venivano sospinte da un forte vento collettivo, arrivavano puntualmente a segno.

Come era successo a quell’arbitro che qualche settimana prima aveva negato un rigore alla squadra del quartiere. “Questa la pagherai” gli avevano augurato i giocatori penalizzati dalla decisione. e l’arbitro si era schiantato con l’auto contro un palo mentre tornava a casa.

La superstizione è una cosa seria, pensò, guai sottovalutarla. Poi chiuse gli occhi cercando di riprendere a dormire. Erano ormai le quattro passate. Spense la luce, ma fu tutto inutile perché venne assalito da un secondo incubo: quello delle prove orali. Vide la commissione della maturità schierata al tavolone, la sedia per lo studente di fronte, la stanza enorme e vuota. Un silenzio stordente. L’immagine che gli mise i brividi.

Si scosse, cancellò quell’immagine e piano piano riuscì ad appisolarsi. Non un sonno profondo, ma quanto gli bastò per arrivare all’alba.

Non appena le prime luci filtrarono dalla tapparella, si alzò e si preparò per andare a scuola. Mancavano due ore all’inizio della maturità.

Una colazione leggera, la faccia lavata più e più volte, la raccolta delle piccole cose utili per l’esame. Poi si avviò a passo lento verso il solito tram.

La giornata sarebbe stata calda, si capiva sin dalle otto del mattino. Dopo undici fermate scese dal tram e coprì a testa bassa gli ultimi duecento metri che lo separavano dalla scuola.

Guardò l’orologio: le otto e venti, dieci minuti alla campanella. Affrettò il passo. A portone della scuola non incrociò nessuno. “Sono già tutti dentro” pensò. E così era. Percorse a testa bassa il corridoio che portava all’aula della “prima A” superando i banchi-barelle nei corridoi-corsie, poi alzò lo sguardo e vide raggruppati all’ingresso dell’aula i professori che componevano la commissione d’esame. Alcuni li conosceva, essendo interni dell’istituto, altri no perché venivano da sedi diverse. Stavano in circolo. Lo aspettavano e quando si avvicinò gli puntarono tutti insieme gli occhi addosso.

“Buon giorno professore. Siamo pronti”.

“Sono arrivate le tracce dei temi?” chiese senza ricambiare il saluto.

“Sono qui nella busta. Spetta a lei aprirla”.

“Lo so, lo so che spetta a me. Mi dia la busta”.

Erano sedici anni anni che faceva parte delle commissioni d’esame dalla maturità. Da cinque col ruolo di presidente. Sapeva benissimo che toccava a lui leggere le tracce dei temi. Lo fece con voce fredda, di circostanza. Poi restò per sei ore a beccarsi le maledizioni degli studenti.

Un incubo. Un autentico incubo.

 

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