di Alfredo Somoza
Quando, nel pomeriggio del 14 febbraio 1945, a bordo dell’incrociatore Quincy della US Navy in navigazione sul Grande Lago Amaro del Canale di Suez, Ibn Saud, sovrano e fondatore dell’Arabia Saudita, e Franklin Delano Roosevelt, il grande presidente statunitense che sarebbe deceduto dopo un paio di mesi, stipularono un accordo tra i loro Paesi, stavano in realtà decidendo la storia futura del Medio Oriente. In Europa si chiudeva la Seconda Guerra Mondiale e gli Stati Uniti plasmavano la loro nuova strategia per affrontare la Guerra Fredda. Una strategia di contenimento dell’espansione sovietica verso sud affidata a Turchia e Iran, e con l’Arabia Saudita che, in cambio di protezione militare, avrebbe rifornito gli Stati Uniti del prezioso greggio con il quale muovere economia ed esercito.
L’accordo prevedeva anche, nelle parti non verbalizzate, la “tolleranza” statunitense nei confronti delle dichiarazioni “eccessive” del regime wahabita nei confronti di Israele. E, più in generale, un’azione di schermo a livello delle Nazioni Unite per evitare che fossero messe in discussione le pratiche barbariche in vigore nel regno circa i diritti umani e di genere.
Il patto ha retto anche grazie a operazioni coperte, come il rifornimento di petrolio agli Stati Uniti garantito dai sauditi tramite la controllata Saudi Aramco, durante l’embargo petrolifero dichiarato da Riyad contro tutti i Paesi sostenitori di Israele ai tempi della guerra del Kippur negli anni ’70. L’Arabia Saudita da una parte infiammava le piazze contro Israele, dall’altra finanziava sottobanco gli amici dello Stato ebraico. Questo connubio apparentemente innaturale prevedeva anche l’investimento nell’economia statunitense di buona parte degli introiti del petrolio: una sorta di giroconto che, qualche decennio più tardi, si è ripetuto tra Stati Uniti e Cina con il gigantesco avanzo commerciale della Cina.
L’alleanza strategica tra i custodi dei luoghi sacri dell’Islam e la grande potenza globale bisognosa di petrolio ha segnato la storia recente del Medio Oriente, fino alla fase più impegnativa per i sauditi: e cioè quando hanno dovuto autorizzare la presenza di basi fisse (e quindi di soldati “infedeli”) sul proprio sacro suolo, dopo che Saddam Hussein era diventato un problema anche per loro.
L’Arabia Saudita, forte della sua ricchezza, del suo ruolo strategico e della sua alleanza con Washington, è passata da Paese fragile agli albori degli anni ’40 a potenza regionale in grado di influenzare l’andamento politico ed economico della sua regione, e indirettamente del mondo intero, attraverso il controllo dell’OPEC, il cartello dei grandi produttori mondiali di greggio. Dopo l’11 settembre, però, le cose cambiano. Il gruppo terroristico al-Quaida che colpisce al cuore l’impero è nato e cresciuto in Arabia Saudita e alcuni suoi leader, Osama Bin Laden in primis, fanno parte dell’élite economica e politica di Riyad. Per la prima volta, negli Stati Uniti qualcuno comincia a chiedersi cosa si annidi tra le pieghe dei rapporti tra i due Paesi, ma le scoperte vengono segretate.
La relazione della Commissione d’inchiesta del Parlamento degli Stati Uniti sulla strage delle Torri Gemelle, attentato al quale parteciparono 15 cittadini sauditi su 19 terroristi, dedica ben 28 pagine all’Arabia Saudita. Pagine rimaste top secret: malgrado le pressioni, non sono mai state pubblicate. Ma ora è stata presentata una proposta di legge, sottoscritta da potenti senatori di New York e del Texas, che se fosse approvata autorizzerebbe i familiari delle vittime a chiedere un risarcimento milionario all’Arabia Saudita, sancendo la co-responsabilità del Paese nell’attentato. Risarcimenti che avrebbero come conseguenza la smobilitazione e fuga degli investimenti sauditi negli USA, valutati in 750 miliardi di dollari, per evitare pignoramenti.
Si tratta di una situazione al limite, inimmaginabile fino a poco tempo fa, che solo Obama potrebbe stoppare ponendo il veto sul voto parlamentare. Ma i dissidi tra gli alleati storici non si esauriscono qui. L’Arabia Saudita ha mal digerito la politica statunitense nei confronti dell’Iran, con la firma dei trattati che hanno rimesso in gioco Teheran, storica nemica dei sauditi, e la gestione della crisi siriana, dove la diplomazia statunitense si è accodata a Putin e sta scaricando progressivamente il fronte anti-Assad per concentrarsi nella lotta contro il Daesh: una creatura politica e militare non estranea a Riyad.
Infine, l’Arabia Saudita è anche il Paese che, attraverso la sovrapproduzione di greggio, sta mettendo in ginocchio l’industria statunitense dell’estrazione di shale oil, che aveva garantito maggiore autonomia energetica agli USA.
Barack Obama è stato il peggior presidente che i sauditi si potessero aspettare, ma è indubbio che anche dopo di lui la politica a stelle e strisce verso il Medio Oriente non sarà più la stessa. Difficilmente l’Arabia Saudita potrà godere ancora a lungo dal muro di protezione che, in questi decenni, ha permesso il prosperare di uno dei regimi più odiosi del pianeta.
Alfredo Somoza