Ludovico Ariosto, da Ferrara… alla luna

di Francesca Radaelli

Il 6 luglio 1533 moriva a Ferrara Ludovico Ariosto, autore dell’Orlando Furioso, nonché uno tra  più grandi scrittori del Rinascimento italiano. Si era ammalato di enterite non appena rientrato dal viaggio a Mantova al seguito del duca Alfonso d’Este, in occasione dell’incontro di quest’ultimo con l’imperatore Carlo V. Nel compimento cioè di uno dei tanti doveri che il suo ruolo di cortigiano al servizio degli Estensi comportava. Doveri e obblighi che gli consentivano di condurre un’agiata vita di corte, ma a cui Ludovico  si era sempre sottoposto malvolentieri, soprattutto quando si trattava di intraprendere lunghi viaggi e di allontanarsi dalla sua Ferrara.

Una scena dell'Orlando Furioso (la liberazione di Angelica da parte di Ruggiero) dipinta dal francese Ingres
Una scena dell’Orlando Furioso (la liberazione di Angelica da parte di Ruggiero) dipinta dal francese Ingres

Sì perché il poeta che raccontò il viaggio di Astolfo fin sulla luna a cavallo di un ippogrifo, se amava far volare la fantasia, la vita di tutti i giorni preferiva trascorrerla nella sua tranquillità sedentaria. Il mite cortigiano Ariosto ebbe addirittura l’ardire di rifiutarsi di seguire il potente cardinale Ippolito d’Este, quando questi divenne vescovo di una provincia dell’Ungheria.  E, più tardi, accettò di assumere la carica di governatore della Garfagnana, ma senza alcun entusiasmo e anzi soffrendo parecchio, non tanto per la difficoltà che l’incarico comportava, quanto piuttosto per la lontananza da casa a cui lo costringeva.  A Ferrara Ariosto aveva tutti gli affetti più importanti, a partire da Alessandra Benucci vedova Strozzi, la donna con cui aveva intrecciato un forte legame e che alla fine avrebbe sposato, in gran segreto per non perdere i benefici ecclesiastici.

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Il volo sull’ippogrifo nell’illustrazione di Gustave Doré

 Ma a Ferrara aveva soprattutto la tranquillità necessaria per dedicarsi alla letteratura. Ovvero la sua passione, quella che sentiva come la più grande vocazione. Impiegò 11 anni per portare a termine il suo capolavoro, l’Orlando Furioso. Lo dedicò al Ippolito, il cardinale, che non dovette apprezzare particolarmente il dono, essendo molto poco sensibile alle Belle Arti e molto più interessato alla carriera politica. Eppure l’opera fu un successo. Nel corso dei 38.736 versi di questo lungo poema cavalleresco in ottave Ariosto si è divertito a intrecciare abilmente e sapientemente le avventure di tantissimi  personaggi, uno più romanzesco dell’altro.

Cavalieri innamorati e principesse in fuga, maghe ammaliatrici e donne guerriere, pagani e cristiani incrociano i loro cammini sul campo di battaglia e all’interno di boschi e palazzi incantati, separano i loro destini, quindi si incontrano nuovamente in un turbinare di avvenimenti. Orlando pazzo per amore e Angelica innamorata di un giovane saraceno, la love story tra Ruggiero e Bradamante, i duelli valorosi tra pagani e cristiani, i mondi fantastici dell’isola di Alcina e del palazzo di Atlante, fino alla Luna, il luogo dove Astolfo va a recuperare il senno di Orlando. Il luogo dove sono ammassate le cose perdute sulla terra. Dove il cavaliere può vedere, racchiuso in ampolle di vetro, tutto il tempo perduto dagli uomini nell’inseguire illusioni irraggiungibili, dall’amore alla bellezza, dalle preghiere inascoltate ai progetti mai realizzati. E dove, a un certo punto, Astolfo vede anche “bocce rotte di più sorti, / ch’era il servir de le misere corti”.  

In un poema in cui ogni personaggio insegue qualcosa, ciò che alla fine si perde non è tanto l’oggetto del desiderio quanto soprattutto il tempo inutilmente impiegato in questa ricerca. Proprio quel tempo che Ariosto cercava di guadagnare, ogni giorno, a Ferrara, strappandolo alle incombenze da cortigiano, per dedicarlo a ciò a cui sentiva di dover riservare la parte migliore di sé. Ossia intrecciare racconti e avventure, cantando “le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese”.

 

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