Martin Buber, il dialogo e qualche libro per noi

di Marco Riboldi

Una delle figure più interessanti della prima metà del XX secolo è senza dubbio quella di Martin Buber (Vienna 1878 – Gerusalemme 1965).

Nato in una famiglia alto borghese, a causa dei dissapori tra i genitori passò i primi, significativi anni della sua vita con la famiglia del nonno Solomon, proprietario terriero e Governatore della Banca Austro-Ungarica. Era, il banchiere Solomon, un profondo conoscitore della tradizionale ebraica, un “amante della parola” in grado di svolgere approfonditi studi sui testi della cultura talmudica e biblica. La moglie trasmise invece al ragazzo una vicinanza alla parola divina più immediatamente devota e religiosa.

Dalla mescolanza di questi elementi, Buber trasse il suo profilo intellettuale e sociale: quello di un ebreo moderno, che tentava di coniugare la cultura e le tradizioni ebraiche con le moderne scienze occidentali di cui poteva godere un buon borghese mitteleuropeo nei decenni della “felix Austria” (quelli celebrati da Zweig ne “Il mondo di ieri” o nelle opere di J. Roth come “La marcia di Radetzky” e “ La cripta dei Cappuccini”, libri mai sufficientemente consigliati).

Il ritorno nella famiglia paterna gli consentì di proseguire gli studi nella capitale del regno e in altre città, come Berlino, Zurigo e Firenze (dove rimase due anni, dopo la laurea in filosofia).

Fu un importante esponente del movimento sionista, di cui propose una interpretazione prevalentemente educativa e culturale, non sposando la parte più marcatamente nazionalista e politica, senza per questo sottovalutare la importanza dell’idea di uno stato ebraico.

Affermatosi come studioso e docente, insegnò fino al 1933, quando l’avvento di Hitler lo costrinse a ritirarsi dalla Università: continuò il suo impegno come dirigente dell’organizzazione ebraica tedesca che cercò di assicurare ai giovani ebrei una possibilità di istruzione. Dovette però lasciare la Germania nel 1938 e si trasferì in Palestina, dove continuò a insegnare come docente all’Università ebraica. Con la fondazione dello Stato di Israele, divenne una delle figure di riferimento della opinione pubblica e della cultura, affrontando apertamente anche polemiche non facili, come quella che lo coinvolse quando si oppose alla condanna a morte di Eichmann.

Circondato comunque dalla stima e dall’affetto generale, scomparve il 13 giugno 1965.

Una delle opere più importante di Martin Buber si intitola “Io e Tu”.

Già nel titolo riassume il centro del suo pensiero: l’essere umano non è comprensibile se non all’interno di una relazione che fa di me un interlocutore dell’altro. L’uomo è anzitutto dialogo, confronto con l’altro uomo, persona che si relaziona con l’altra persona.

Non esistiamo, non esisto io, non esisti tu, se non insieme e nel nostro reciproco incontrarci.

C’è solo un elemento originario precedente la relazione Io- Tu ed è quel Tu eterno che è Dio, l’assoluto che è come la tensione estrema, la realizzazione assoluta del movimento dialogico, realizzazione totale che noi non possiamo certo realizzare, ma solo vedere come orizzonte di senso.

L’esperienza umana è condizionata da un continua tentazione di sostituire alla relazione autentica di un Io con un Tu (relazione che significa riconoscimento dell’altro, ascolto, rispetto, reciproca costruzione di sé come “parte” di un dialogo) con la falsificante relazione di un Io con un Esso: in altre parole, la tentazione di trattar l’altro come un oggetto, una cosa da ricondurre alla sua utilità per me. È la reificazione della persona che mi sta di fronte, la riduzione a cosa della umanità del mio prossimo, la trasformazione della relazione umana in una relazione strumentale.

L’altro non è l’essere di cui si parla, ma l’essere con cui si parla.

L’essere di cui si parla è quello della scienza, della tecnica e, si badi bene, questo ha anche un aspetto del tutto positivo: è l’essere verso cui noi ci rivolgiamo anche con attenzione e cura.

Ma rimane un essere nei confronti del quale noi ci poniamoci come davanti ad un oggetto della nostra personalità.

L’essere con cui si parla, il Tu del nostro Io, è invece quello che si pone davanti a noi con il rango di soggetto speculare a me, avente medesima dignità.

Il nostro atteggiamento non è più “oggettivante”, perché il Tu è l’altro volto dell’Io.

E l’appello di Dio è quello ad essere pienamente me stesso, cioè pienamente realizzato nella relazione con le altre persone e con Lui.

In uno dei racconti dei Chassidim, si ricorda ad un uomo convinto della propria miseria spirituale che Dio, il giorno dei giudizio, non gli chiederà se è stato Mosè o Elia: gli chiederà se è stato se stesso fino in fondo.

Sono temi di cui è facile vedere la vicinanza con istanze dell’esistenzialismo e del personalismo, ma anche influenze di carattere heideggerriano.

Vi è però in Martin Buber l’interessante inclinazione di temi verso una sensibilità derivante dalla sua profonda conoscenza dell’ebraismo.

Qui si può innestare la singolare attenzione che Buber dedica alla religione ebraica in quella forma particolare che fu il movimento chassidico dell’est europeo, quella parte di ebraismo che più di altri fu travolto dalla peste hitleriana.

Buber conobbe e studiò questo movimento religioso, che mescola in sé misticismo, esperienza religiosa, studio profondo di Talmud e Cabala, e che si incarna nelle comunità che vivono attorno al “ Rebbe”, il maestro, il fulcro della comunità.

Questa civiltà quasi scomparsa produsse una fitta rete di comunità, una solida tradizione, un sapere che possiamo ritrovare ne “I racconti dei Chassidim”, il testo nel quale Buber raccolse le storie di queste comunità (l’interpretazione che Buber diede di alcune caratteristiche di questo movimento fu in seguito diversamente declinata da altri studiosi, ma queste sono questioni specialistiche che esulano dal nostro lavoro).

Trovo preziosi i testi di Buber, sia il bel libro “Il problema dell’uomo ” che la già citata raccolta di racconti, senza ovviamente dimenticare le opere più filosofiche, cioè “Il principio dialogico” e “L’Io e il Tu”: ad essi rinvio per chi volesse approfondire un pensiero che qui si è dovuto ridurre nei suoi più elementari confini.

Visto che spesso mi si chiede di fornire indicazioni di lettura, mi permetto qualche ulteriore personalissimo suggerimento.

Belle visioni della realtà della cultura chassidica e più in generale dell’ebraismo dell’est Europa si trovano nei grandi romanzi di Isaac B. Singer e di Israel J. Singer.

Del primo, premio Nobel 1978, a me piacciono in modo particolare “La famiglia Moskat”, vasta (e un po’ impegnativa) rappresentazione di alcuni decenni di vita di una famiglia ebraica tra fine XIX secolo e seconda guerra mondiale. Più agili, ma non meno consigliabili, “Shosha” e i racconti di “Gimpel l’idiota”.

Di Israel Singer, fratello del primo, consiglierei “I fratelli Ashkenazy”, anche se il suo testo forse più celebre è “Acciaio contro acciaio” (noto anche con il titolo “La fuga di Benjamin Lerner”), meno dedicato però alla descrizione dell’ebraismo dell’est Europa (è la storia di un ebreo che per una serie di circostanze viene considerato un disertore nel corso della prima guerra mondiale e delle sue conseguenti avventure).

Una menzione a parte farei per Joseph Roth: della sua vasta produzione cito un solo testo “Giobbe. Romanzo di un uomo semplice”, che a me pare un capolavoro : è la bellissima storia di un ebreo buono e modesto che vive molte vicissitudini che affaticano la sua esistenza, venendo alla fine premiato per la sua bontà da una sorte finalmente più benigna.

Ma J. Roth è autore da leggere in lungo e in largo: ogni suo libro (cercatene l’elenco su Wikipedia) è un gioiello.

A chi volesse seguire le tracce del chassidismo dopo la Shoah (il movimento infatti non è scomparso, ma vive in numerose e attive comunità soprattutto, ma non solo, negli Stati Uniti) consiglierei di iniziare con i bei romanzi di Chaim Potok.  I tre fondamentali mi sembrano “Danny l’eletto”, “La scelta di Reuven” e “Il mio nome è Asher Lev” (da leggere in quest’ordine) che, attraverso le storie di alcuni giovani e delle loro famiglie, descrivono la vita nei quartieri e nelle comunità ebraiche ortodosse americane.

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