di Daniela Annaro
Una grande retrospettiva a Milano offre l’opportunità di conoscere uno dei maggiori (e visionari) artisti del Novecento: Max Ernst, pittore, filosofo, scultore, poeta, attore e grafico tedesco. (Palazzo Reale, fino al 26 febbraio 2023).
“E’ l’artista del Novecento che ha letto più di tutti” scriveva, forse esagerando, Andrè Breton. Di fatto, Max Ernst (1891 – 1976) nel corso della sua vita si è occupato di psicologia, antropologia, paleontologia, medicina, mineralogia oltre ad aver studiato filosofia e arte a Bonn. Un sapere da maestro rinascimentale. Come tante sono le definizioni e le categorie con cui viene presentato e definito: dadaista, surrealista, patafisico, teorico dell’arte, umanista nonché inventore del dripping, poi adottato dall’americano Pollock. Un artista tra i più citati e discussi, di bell’aspetto e dalla vita avventurosa, ma poco conosciuto. Forse perché non amava troppo autopromuoversi in vita, tanto che, quando nel 1954 alla Biennale di Venezia vince il primo premio, non è riconosciuto dall’usciere così gira i tacchi e va a vedere Tintoretto alla Scuola Grande di San Rocco.
A Palazzo Reale, Ernst è proposto attraverso quattrocentoventitré opere. Non c’è da spaventarsi, ma solo da rallegrarsi per la serietà della ricerca dei due curatori: Martina Mazzotta e Jürgen Pech, quest’ultimo il più autorevole studioso di Ernst. Ci sono gli oli, i disegni, i gioielli d’oro e argento, i collage, la grafica, le crittografie, i frottage e i grattage, perché era un autentico sperimentatore.
Dalla mostra emerge un artista cupo e allegro, ludico e sapiente, che è in grado di trarre ispirazione e rielaborazione dai saperi più diversi. Un vero athanor, un vero forno per il fuoco filosofico . La sua pittura svela mondi affascinanti, ma anche inquietanti.
Ernst vive due guerre mondiali, i nazisti bruciano le sue tele perché “degenerate”, vive in Francia e negli Stati Uniti per poi ritornare a Parigi, frequenta la psicanalisi di Freud e la psichiatria con i malati mentali e le loro figurine di mollica di pane, ha quattro mogli, tormentate storie d’amore con Leonora Carrington, ménage à trois con Gala (moglie poi di Salvador Dal) e il poeta Paul Eluard, senza annoverare le amicizie dadaiste e con quelle surrealiste. E da questo intenso forno alchemico, (l’alchimia è centrale per i Surrealisti), nascono le sue tele.
La prima opera che si incontra in mostra è “Edipo Re” del 1922, omaggio alla metafisica di Giorgio de Chirico. All’amico André Breton dedica “Gli uomini non ne sapranno nulla” dell’anno successivo, il 1923. Cita ne “Il Bacio” (1927) Leonardo Da Vinci per cui ha una vera passione, come per Michelangelo Buonarroti ne La Pietà o La Rivoluzione la notte del 1923).
Il terribile uccello cioè “L’Angelo del Focolare”, icona della rassegna milanese è del 1937, nello stesso anno in cui Picasso dipinse Guernica. Mostri che di lì a poco, nel 1939, si sarebbero abbattuti sull’Europa con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.