Medea e la minaccia della diversità

di Safia Zappa

Il canto lamentoso di una donna apre la scena. Sul palco sedie, bauli, un letto, una grande scala.  E’ l’inizio di Medea, la tragedia di Euripide andata in scena in questi giorni al Teatro Manzoni di Monza.

Medea è una donna distrutta dal dolore, suo marito Giasone l’ha tradita sposando un’altra donna, la figlia di Creonte, re di Corinto.

E’ Franco Branciaroli ad interpretare il ruolo di Medea. Lo stesso Ronconi, nelle sue note di regia, scrive che l’eroina è una creatura misteriosa e mostruosa, quasi un toro, e per questo motivo può anche essere interpretata da un uomo.

Ad Euripide interessa ciò che Medea provoca nel suo “gruppo” (ovvero la città di Corinto). Il teatro costruisce una dinamica collettiva, nasce proprio come un’arte che individua problemi e incrinature nella società e il singolo ha senso solo se inserito in una collettività.

Spesso circondata dal coro, formato dalle donne di Corinto, Medea medita la sua vendetta: il dolore le dà una forza distruttiva, anzi, di più, auto-distruttiva. Se qualcuno, pur di vendicarsi, è disposto ad auto-distruggersi, diventa una forza incontrollabile, una minaccia.

Medea, per la città di Corinto, è una vera e propria minaccia: è una donna pronta a perdere tutto, persino i suoi stessi figli, pur di rivendicare il suo dolore. Creonte, re della città, le ordina l’esilio, spaventato dalla potenza di quella donna e soprattutto dalla sua intelligenza e astuzia.

Più che una Medea femminista, che mostra quanto una donna possa avere la forza fisica e intellettuale di un uomo, quella di Ronconi veste più precisamente i panni della straniera. Così la tragedia di Euripide non è tanto una tragedia della femminilità, quanto della diversità.

Sembra incredibile come una rappresentazione teatrale andata in scena per la prima volta nel 431 a.C. abbia ancora tanto da dire.

La potenza distruttiva della disperazione di Medea, la straniera, è difficilmente controllabile proprio come è difficile controllare un attentato terroristico, il coraggio di distruggere e auto-distruggersi che ha un kamikaze, spaventato da un ambiente con tradizioni e cultura differenti dalle proprie.

La diversità va accolta, non respinta: è un’occasione che permette di arricchirsi e aprire la mente. Chiudersi nelle proprie convinzioni porta ad una staticità, se non addirittura ad un regresso, e scatena violenza tra le parti. Un atteggiamento di apertura mentale, invece, garantisce un sincretismo culturale dove nessuna parte vuole prevalere sull’altra.

Accoglienza è sinonimo di pace, e come ben si sa, la pace allontana la guerra.

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