“Mysterium iniquitatis”, di Sergio Quinzio, Adelphi

di Carlo Rolle

Buongiorno, amici lettori, come altri testi della collana “Biblioteca” di Adelphi, anche Mysterium iniquitatis è un libro unico e difficile da classificare. Il suo argomento non può che incuriosire ed è difficile leggerne il sunto nel risvolto di copertina senza poi acquistarlo.

In questo libro Sergio Quinzio (1927 – 1996) affrontò un tema che lo aveva affascinato, o meglio ossessionato, per tutta la vita. Prendendo spunto dalla profezia di Malachia, secondo la quale l’ultimo pontefice della storia della Chiesa si chiamerà Pietro II, Quinzio, immaginò il pontificato di questo papa e scrisse in questo libro le sue ultime due encicliche.

 

Le due encicliche di Pietro II, ultimo pontefice

Nel libro, Pietro II è già anziano. Egli è deluso per il mancato adempimento di un annuncio di salvezza tramandato e non realizzato per due millenni ed insieme angosciato dal presentimento dell’imminente fine della Storia. Cito dal risvolto di copertina dell’edizione Adelphi:

“La prima enciclica, “Resurrectio mortuorum”, riafferma alla lettera la più radicale e sconcertante verità cristiana, la promessa più ardita e irrinunciabile della fede: la resurrezione dei morti. La seconda espone ed interpreta quel “Mysterium iniquitatis” di cui Paolo ha scritto, profetizzando la grande apostasia finale e sul quale la Chiesa, nel suo insegnamento, ha sempre taciuto. Non a caso, secondo l’esegesi del suo ultimo papa, è innanzitutto nella Chiesa – baluardo contro il male – che il male stesso si annida. E così la seconda enciclica si conclude con parole che sanciscono solennemente il fallimento del cristianesimo nel mondo. Subito dopo tali durissime rivelazioni Pietro II sale all’interno della cupola di San Pietro e muore precipitando all’incrocio dei due bracci della croce, nel luogo dei falsi trionfi, là dov’è sepolto il pescatore di Galilea”.

 

Impostazione ed originalità del libro

Questa è la traccia di questo libro singolare, in cui Sergio Quinzio riversò decenni di riflessioni. Con una scelta non convenzionale, l’autore rinunciò alla tentazione di dare una struttura narrativa alla vicenda; andò immediatamente al sodo, dando voce al personaggio del papa Pietro II; il libro è infatti composto semplicemente dalle sue due encicliche e da una nota finale dello stesso Quinzio sulla genesi di questo libro. È una scelta antitetica rispetto a quelle della letteratura d’intrattenimento. Essa sottolinea come in questo libro la meditazione filosofica e religiosa prevale sulla narrazione.

Un libro così era enormemente complesso da affrontare per uno scrittore. E ciò sia dal punto di vista del contenuto, perché il libro tiene conto di due millenni di pensiero religioso e filosofico, che dal punto di vista della forma, perché non è facile scrivere come avrebbe scritto un vero pontefice. Solo un esperto teologo ed esegeta biblico come Sergio Quinzio avrebbe potuto riuscire in un’impresa come questa.

Ma veniamo al contenuto del libro, che uscì nel 1995: Sergio Quinzio immagina che Pietro II scriva le sue encicliche di Pietro II nel 1999, mentre un senso d’incertezza e crisi avvolge il suo pontificato. Pietro II è un dotto teologo esegeta, ma da un po’ di tempo si pronuncia sempre meno, sparisce gradualmente dai media, mentre la Chiesa continua ad offrire di sé la solita immagine: meccanismi curiali, nunziature apostoliche, sinodi e conferenze episcopali, cerimonie solenni.

 

La prima enciclica: “Resurrectio mortuorum”: la diluizione del messaggio cristiano

La prima delle due encicliche, intitolata Resurrectio mortuorum, inizia con una serie di citazioni dai testi sacri, che può risultare un po’ ostica per alcuni. Ma non lasciatevi dissuadere dal proseguire, amici lettori. Pietro II dimostra con queste citazioni come la credenza nella resurrezione dei morti fosse proprio al centro del messaggio cristiano delle origini. Non si tratta semplicemente di affermare l’esistenza di un’anima immortale che, dopo la morte del corpo, prosegue a vivere in un luogo a noi inaccessibile in questa vita. No, si tratta proprio della “resurrezione dei morti” e della “vita nel mondo che verrà”.

I morti risorgeranno nella loro stessa carne, come accadde a Gesù, e si ritroveranno in un mondo nuovo: questo era l’annuncio cristiano. La resurrezione era un evento concreto, che i primi credenti accettavano perché accettavano la resurrezione di Gesù. E così anche la Chiesa, scrive Pietro II, riconobbe per secoli la speranza nella resurrezione dei morti. In effetti, essa non ha mai affermato esplicitamente nulla di contrario ad essa. Eppure negli ultimi tempi, rileva Pietro II, “… la verità della resurrezione è dichiarata troppo timidamente e soprattutto essa non è più mantenuta al centro del messaggio cristiano. Appare anzi come un’affermazione confusa tra tante altre”.

Nel corso dei secoli, la crescita del numero dei documenti ha reso ambiguo il contenuto centrale del messaggio cristiano, dissolvendolo in una marea di altri contenuti. Questa diluizione è stata ultimamente esasperata dal fatto che ogni documento è ormai frutto di un dibattito planetario e pluriennale tra teologi, esegeti e specialisti di discipline particolari, i quali raggiungono conclusioni inevitabilmente mediate da compromessi. Ciò ha oscurato la continuità con le origini del cristianesimo, portando la Chiesa a trascurare certe parti della propria tradizione per dare maggiormente spazio ad altre, più compatibili con la sensibilità del mondo moderno.

 

“Resurrectio mortuorum”: la resurrezione dei morti è ormai avvolta nel silenzio

Per questo, afferma Pietro II, l’insegnamento della Chiesa, dalle encicliche alle più umili omelie che si ascoltano ogni domenica, propone ormai quasi esclusivamente contenuti di tipo etico, sociale ed economico, nello sforzo di rendersi accettabile alla sensibilità del suo tempo. Così facendo, però, evita di proclamare apertamente la propria fede, mostrando di vergognarsene e, in sostanza, di non averla più. Ciò ha creato una profonda cesura tra la Chiesa moderna e quella delle origini.

Eppure, argomenta Pietro II, la fede cristiana non può conoscere alcun progresso storico: il cristianesimo fu pienamente tale proprio al suo inizio, quando si era appena manifestata la presenza di Dio negli eventi umani. Il tempo trascorso da allora non può che allontanarci dalla verità del messaggio di Cristo. E ciò è giunto al punto che alcuni teologi sostengono che il sepolcro vuoto di Cristo fosse una leggenda e la resurrezione dei morti soltanto un modo per esprimere l’idea dell’immortalità dell’anima. Ormai anche in seno alla Chiesa, afferma Pietro II, si tace su quell’escatologica “rottura del tempo” che porrà fine alle sofferenze degli umili e al godimento degli empi; la fine della Storia viene considerata un’ingenua sopravvivenza del pensiero apocalittico ebraico, dal quale sorse la fede cristiana. Celebri teologi contemporanei si sono spinti a vedere la morte individuale come sostanzialmente coincidente con la resurrezione, in quanto essa conclude la vicenda terrestre di ciascuno.

 

“Resurrectio mortuorum”: trasformazione del messaggio del Cristo in semplice umanesimo

Un progetto ideologico è in atto nel cristianesimo, ammonisce Pietro II: esso consiste nell’espungere dal messaggio cristiano tutto ciò che appare alla mentalità moderna come sovrastruttura mitica: il giudizio finale, il cielo, l’inferno, ecc. Secondo certi teologi tutto si sarebbe già compiuto in Cristo e nulla ci dovremmo ormai attendere per il futuro. Anzi, il futuro degli uomini starebbe interamente nelle loro mani. Ma in questo modo si è svuotata la verità cristiana della sua capacità di attrarre gli uomini e di dare una risposta alla situazione del mondo.

Proprio l’idea dell’immortalità dell’anima, scrive Pietro II, ha contribuito ad offuscare e cancellare la speranza nella resurrezione. Essa si è affermata proprio quando ha incominciato ad indebolirsi, insieme alla fede dei battezzati, la speranza nella resurrezione della carne. Ma il riporre la speranza nell’immortalità dell’anima implica che non si contempli più un Dio che salva e che porterà nel mondo la sua giustizia, una giustizia altrimenti inaccessibile agli uomini e alla natura. L’immortalità dell’anima è concepita come un qualcosa che già esiste, di cui basta prendere atto, così come il platonismo prendeva atto dell’esistenza di concetti astratti ed affermava la loro superiorità rispetto al mondo della corporeità e dell’apparenza. Una tale concezione appartiene all’orizzonte di Atene, non a quello di Gerusalemme, afferma Pietro II, ed è in effetti indistinguibile da una semplice visione umanistica. Dio stesso non ha in essa più alcun ruolo da giocare.

Contro questa deriva, Pietro II afferma nella sua enciclica la verità della resurrezione dei morti, alla quale conferisce solennemente insindacabile valore di dogma. I morti resusciteranno, scrive l’ultimo papa, e torneranno a vivere una vita pienamente umana sotto nuovi cieli e sopra una nuova terra, nella quale abiterà finalmente la giustizia.

 

La seconda enciclica: “Mysterium iniquitatis”: misteriose parole di San Paolo

La seconda enciclica del libro, intitolata Mysterium iniquitatis, prende invece le mosse dalle misteriose di San Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi. Essa annuncia quali eventi precederanno l’atteso ritorno del Signore: “Prima dovrà avvenire l’apostasia e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e si innalza sopra ogni essere […], fino a sedere nel tempio di Dio, additando sé stesso come Dio”.

“Non ricordate che, quando ero ancora tra voi, dicevo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà […] l’iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di portenti, di segni e di prodigi menzogneri”.

 

“Mysterium iniquitatis”: i tre enigmi del testo di San Paolo

Le due lettere di Paolo ai Tessalonicesi sono i testi più antichi del Nuovo Testamento, anteriori anche ai Vangeli. Furono scritte un paio di decenni dopo la morte di Gesù e dunque sono molto vicine allo spirito delle origini. Esse parlano di cose che Paolo aveva detto quando si trovava a Tessalonica, ma sulle quali non esistono altri documenti. Chi è “l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che giungerà a sedersi nel tempio di Dio, additando sé stesso come Dio”? E chi è che lo trattiene? E infine, che cos’è il mistero dell’iniquità? Questo è il tema dell’enciclica di Pietro II:

Nella Chiesa, a mano a mano che ci si è allontanati dalle origini, nessuno ha approfondito il tema del “mistero dell’iniquità”. Eppure, argomenta Pietro II, il citato passo di Paolo compendia il senso del tempo che trascorrerà dalle origini apostoliche fino al ritorno del Cristo, e lo cònnota come l’avanzare del mistero dell’iniquità. Il tema dell’anticristo, citato a volte al singolare a volte al plurale, era centrale nel primo cristianesimo; lo dimostrano i passi veterotestamentari citati da Paolo e gli accenni esso che si trovano anche nelle lettere di Giovanni. Persino il Vangelo di Matteo riporta parole dello stesso Gesù su questo tema. Esso sarà infine al centro delle visioni da incubo nel libro dell’Apocalisse.

 

“Mysterium iniquitatis”: il progredire dell’apostasia

Nella sua enciclica, Pietro II conduce un’affascinante esegesi dei testi per decifrare a chi si riferisse Paolo. Paolo aveva in mente situazioni concrete del suo tempo, che ovviamente non anticipo. Tuttavia secondo Pietro II il mistero dell’iniquità permane. Nel corso di duemila anni la Chiesa non è mai riuscita ad identificarlo. Il mistero dell’iniquità non è la semplice presenza del male sulla terra: il male è soltanto il sintomo di un qualcosa che contagia e corrompe in maniera sempre più grave il messaggio cristiano e il mondo. Questo sviluppo è giunto, secondo Pietro II, al suo punto estremo, che per due millenni è stato rimandato; ma non per molto ormai. L’enciclica si conclude con l’intuizione del mistero dell’iniquità, di chi è l’anticristo e di cosa lo ha frenato fino ad ora, ritardando così anche il ritorno del Cristo e l’avvento della giustizia sulla terra.

Questo vi darà un’idea del contenuto di questo paradossale ed inquietante libro. Ma il suo fascino sta nel seguire, pagina dopo pagina, le stringenti e sofferte argomentazioni di Pietro II sino alle sue sconvolgenti conclusioni.

 

 

"Mysterium iniquitatis" di Sergio Quinzio
In copertina: Bibbia spagnola del duca di Sussex (Catalogna, metà del XIV secolo). The British Library, Londra.

 

Per chi fosse eventualmente interessato, ecco i link alle precedenti recensioni:

 

– 1) “Storie e leggende napoletane”, di Benedetto Croce; 

– 2) “Il monaco nero in grigio dentro Varennes”, di Georges Dumézil; 

– 3) “I Vangeli Gnostici”, a cura di Luigi Moraldi; 

– 4) “La Cripta dei Cappuccini”, di Joseph Roth; 

– 5) “Fuga da Bisanzio”, di Iosif Brodskij; 

– 6) “Andrea” o “I ricongiunti”, di Hugo von Hofmannsthal; 

– 7) “Lo stampo”, di Thomas Edward Lawrence; 

– 8) “Un altro tempo”, di Wystan Hugh Auden;

– 9) “Fuga senza fine. Una storia vera”, di Joseph Roth; 

– 10) “Biblioteca”, di Fozio.

 

 

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