di Alfredo Somoza
La fine annunciata dei reality che facevano furore nei primi anni 2000, quelli dove un gruppo di “famosi” o aspiranti tali doveva sopravvivere in qualche isola remota, ci racconta i cambiamenti nella sensibilità media. Ora che l’etere è stato saturato da cuochi veri o improvvisati e da medici legali che dall’esame di ossa e tessuti riescono a ricostruire crimini sempre più raccapriccianti, l’esotismo naif dei reality ai Tropici sembra fuori luogo. In fondo, cosa sarà mai doversi districare tra zanzare aggressive e granchi minuscoli, quando i drammi veri sono diventati il dilagare dei serial killer o il rischio della pasta scotta?
Le varie isole dei famosi, format internazionale replicato ovunque, arrivavano due decenni dopo l’inizio del turismo di massa nei villaggi-vacanze, tutti uguali, dislocati alle latitudini equatoriali. Il set era l’antitesi del “tutto compreso”: il cibo andava conquistato con sudore e perseveranza. Il contrario, appunto, dello spreco delle mense dei villaggi, dove si trova di tutto a tutte le ore, dove si riempiono i piatti per poi lasciare metà del cibo intatto. E spesso questo accade in Paesi dove si soffre la fame, con bilance dei pagamenti che devono sopportare il fardello dell’import di beni di lusso, almeno per gli standard locali, da consumarsi solo dentro i villaggi.
Altre caratteristiche di questi reality ricalcano invece aspetti culturali tipici dei villaggi turistici, come la totale mancanza di rispetto nei confronti della natura. È noto che i beach resort sono stati costruiti quando non si pensava ancora agli studi di impatto ambientale, si tagliavano a cuor leggero le mangrovie, si incidevano le barriere coralline, spesso si trascurava perfino il problema del trattamento delle acque nere e dello smaltimento dei rifiuti. Anche i reality in passato si sono contraddistinti per proporre un rapporto traumatico con l’ambiente. Sono ancora fresche le denunce contro quei “famosi” che in Repubblica Dominicana organizzavano i giochi con le fiaccole dentro una grotta con incisioni rupestri, utilizzavano pezzi di stalattite per costruire tavoli e avevano come mascotte un’iguana protetta e in via di estinzione, alla quale erano state tagliate le unghie perché i protagonisti non si facessero male.
Insomma, il villaggio turistico ai Tropici era un assaggio di natura esotica assoggettata ai bisogni di serenità e spensieratezza del cliente. Quella stessa natura, appena fuori dal villaggio, nelle isole dei famosi, tornava ostile. Ovviamente era solo un gioco di specchi e di inganni: in ambedue i casi si riproponevano le miserie della civiltà occidentale opulenta e annoiata.
Oggi l’esotismo non è più così invitante perché, nell’immaginario collettivo, i naufraghi che giocavano a Robinson Crusoe sono stati in qualche modo rimpiazzati dai combattenti “all black” dell’ISIS. Dai Tropici siamo passati ai deserti, dal consumo dell’ambiente al consumo di esseri umani. Ma dove l’occidentale diventa preda, ostaggio e carne da macello, il gioco è stato bandito. Così la paura di quel mondo ignoto, che prima invece ci attirava, sta rilanciando il turismo domestico, comprese nicchie che si consideravano quasi esaurite come il turismo di montagna. Va bene tutto purché alla fine ci si ritrovi vicino a casa, in un luogo sotto controllo, riconoscibile e gestibile. L’esatto contrario dell’era (recente) dei viaggiatori-esploratori che annoiavano parenti e amici con migliaia di fotografie dell’ultimo Paese-trofeo.
Il mondo globalizzato rimane tale solo quando siamo seduti davanti alla televisione, mentre il turismo, tradizionale veicolo di contaminazioni culturali concrete, si è ristretto. L’orticello torna il centro del mondo e della cultura di massa. Ma attenzione, perché dietro la casa di ciascuno di noi potrebbe aggirarsi un cuoco-assassino, l’ultima frontiera della televisione dell’angoscia.