di Francesco Radaelli
“Noi, gente di questo continente, non abbiamo paura degli stranieri, perché molti di noi una volta eravamo stranieri. Vi dico questo come figlio di migranti, sapendo che anche tanti di voi sono discendenti di immigrati”.
Jorge Mario Bergoglio parla di fronte al Congresso degli Stati Uniti d’America.
Jorge Mario Bergoglio è nato a Buenos Aires.
Suo padre e sua madre invece sono originari, rispettivamente, di Portacomaro, in provincia di Asti, e di Lavagna, in provincia di Genova. In Argentina sono arrivati in cerca di fortuna, come tanti italiani che ai primi del Novecento hanno lasciato case, famiglie e povertà e si sono imbarcati verso il Nuovo Mondo. Oggi li chiameremmo ‘migranti economici’. In Argentina sono in 24 milioni a portare un cognome italiano, più di metà della popolazione totale del Paese.
“Il nostro mondo sta fronteggiando una crisi di rifugiati di proporzioni tali che non si vedevano dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Questa realtà ci pone davanti grandi sfide e molte dure decisioni. Anche in questo continente, migliaia di persone sono spinte a viaggiare verso il Nord in cerca di migliori opportunità”.
Papa Francesco è entrato negli Stati Uniti da Sud, da Cuba, dove ha trascorso quattro giorni celebrando funzioni religiose, incontrando anziani capi di stato e rivolgendosi alle persone in spagnolo, la sua lingua madre. Ora, di fronte a deputati e senatori degli Stati Uniti, parla inglese. Dall’altra parte dell’Atlantico, nella parrocchia Sant’Anna in Vaticano, dove si parla italiano, per volontà del Papa è ospitata una famiglia di profughi provenienti da Damasco, la capitale della Siria. Probabilmente parlano arabo. Si tratta di una delle innumerevoli famiglie che fugge da una guerra spaventosa, in cerca di una speranza nuova in Europa, la nuova America.
“Non dobbiamo lasciarci spaventare dal loro numero, ma piuttosto vederle come persone, guardando i loro volti e ascoltando le loro storie, tentando di rispondere meglio che possiamo alle loro situazioni. Rispondere in un modo che sia sempre umano, giusto e fraterno”.
In Ungheria è stato eretto un muro per impedire il passaggio dei profughi in fuga, che l’Ungheria vorrebbero semplicemente attraversarla per dirigersi nel Nord Europa, nuovo El Dorado. Pochi giorni fa il Parlamento ungherese, con un voto a larghissima maggioranza, ha autorizzato i soldati ad utilizzare le armi a difesa delle frontiere del paese.
“Ricordiamo la Regola d’Oro: «Fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te» (Mt 7,12). Questa norma ci indica una chiara direzione. Trattiamo gli altri con la medesima passione e compassione con cui vorremmo essere trattati. Cerchiamo per gli altri le stesse possibilità che cerchiamo per noi stessi. Aiutiamo gli altri a crescere, come vorremmo essere aiutati noi stessi. In una parola, se vogliamo sicurezza, diamo sicurezza; se vogliamo vita, diamo vita; se vogliamo opportunità, provvediamo opportunità. La misura che usiamo per gli altri sarà la misura che il tempo userà per noi”.
Il giorno prima a Papa Francesco è stato consegnato questo disegno.
Lo ha realizzato la piccola Sophie Cruz, figlia di un migrante messicano irregolarmente residente a Los Angeles. Sono milioni i clandestini presenti illegalmente negli Stati Uniti, la maggior parte di loro provengono dall’America Latina. La bambina, cinque anni, indossa un vestito colorato, uno degli abiti tradizionali del popolo dei suoi genitori, ed è riuscita a farsi largo tra la folla lungo la strada che Francesco sta percorrendo, appena uscito dalla Casa Bianca dove ha parlato a lungo col primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti d’America. Sophie porge al papa una lettera: “Vivo a Los Angeles e i miei genitori sono immigrati messicani. Caro Papa voglio dirti che il mio cuore è triste e voglio chiederti di parlare a Barack Obama e al Congresso per far regolarizzare i miei genitori. Ogni giorno ho paura che prima o poi li portino lontano da me. Credo di avere il diritto di vivere con loro, credo di avere il diritto di essere felice. Il mio papà lavora molto in una fabbrica. Tutti gli immigrati, esattamente come mio papà, aiutano a mandare avanti questo paese. Meritano di vivere con dignità e rispetto”.
Parole che, certamente, non sono state scritte da una bambina di cinque anni. Parole che, però, grandi e piccoli possono comprendere. Parole che, in fin dei conti, non sono tanto diverse da quelle pronunciate, in inglese con inflessione ispanica, da un anziano uomo vestito di bianco di fronte all’attenta platea dei membri del Congresso degli Stati Uniti. Una nazione la cui storia è stata plasmata da generazioni di migranti.
Francesca Radaelli