di Achille Taccagni
They say the immigrants steal the hubcaps of respected gentlemen
They say it would be wine and roses if England were for Englishmen again
(Dicono che gli immigrati rubano i coprimozzi di rispettati signori, dicono che sarebbe vino e rose se l’Inghilterra fosse di nuovo per gli inglesi)
Comincia così una delle canzoni più belle dei Clash, unica per il genere cui si ispira e perfettamente inserita in quello scrigno di tesori che è Sandinista!, il loro album più completo e complesso. Splendido esempio di music hall, genere nato, appunto, nelle sale da ballo dell’Inghilterra di inizio Novecento, Something about England è costruita secondo una struttura circolare a tre parti: un blocco centrale, basato su una linea di pianoforte ripetuta per tutta la sezione, cui si aggiungono ad ogni strofa strumenti diversi; un’introduzione e un finale affidati alla sola voce di Mick Jones, con i fiati a farle da contrappunto. Già la musica da sola basterebbe a renderlo un pezzo enorme, capace — una volta in più — di mostrare la poliedricità del gruppo. E’ col testo che diventa un piccolo capolavoro.
La storia è questa. Mick Jones, che fa da narratore, sente quella frase sugli immigrati e si accorge dalla sua stanza che per strada è successo qualcosa: si vedono alcune sirene, un’ambulanza si ferma davanti ad un locale, i bar chiudono e la via si fa buia all’improvviso. All’angolo c’è un barbone, anzi, un soprabito sporco — a dirty overcoat — con dentro an old man who time could not erode; pensando che potrebbe aver assistito alla scena, Jones gli chiede cos’è successo.
“You really think it’s all new, you really think about it too!” gli risponde il vecchio Strummer, come a dire: sei troppo giovane, non puoi capire quante volte nella mia vita ho visto e sentito storie come questa, e anzi, chissà quante me ne toccheranno ancora. I’ll tell you a thing or two, dice il barbone, e comincia il suo monologo in cui racconta, dalla sua prospettiva di ultimo degli ultimi, il secolo breve inglese.
Troppo giovane per la guerra del ‘14–‘18, ma abbastanza grande da doverne subire i postumi: il padre morto, la madre fuggita e i fratelli costretti a rubare — the pay of hoods — per portare a casa il pane. Poi gli anni Venti, con la crisi del Nord dell’Inghilterra e la fame, mentre nella belle époque dei garden party, not a word was said: the ladies lifted cake to their mouths. Arriva la seconda guerra mondiale, coi suoi dieci milioni di morti e con i pochi soldati ritornati a Leicester Square e a Piccadilly nel disinteresse totale del Paese: del resto c’era da ricostruire il mondo, cose ben più importanti di cui occuparsi, the architects could not care.
Il dopoguerra porta con sé la strofa più forte: da un lato c’è l’incredibile e allo stesso tempo terrorizzante progresso tecnologico, che in pochi anni fa passare le persone dal preoccuparsi per le photos in the wallets on the battlefield al terrore per il scientific sun, la bomba nucleare; dall’altro ci sono le promesse di crescita costantemente disattese e la guerra fra poveri che ne scaturisce. Quattro versi meravigliosi, perfettamente incorniciati dal sax: There was masters and servants and servants and dogs / They taught you how to touch your cap / Through strikes and famine and war and peace / England never closed this gap.
Ma ora lasciami in pace, dice Strummer, che la luna è alta: però ricordati delle mie storie. Quello che hai detto all’inizio, quella storia degli immigrati, non ha mai portato a nulla di buono, anzi: the memories that you have dredged up are on letters forwarded from Hell.
Il passaggio al finale è affidato a un canto militare della seconda guerra mondiale, It’s a long way to Tipperary, l’unica cosa ormai che sembra sentir suonare nell’aria. Per il resto, nella via, tutto si spegne, tutto si zittisce; gli ultimi gruppi rimasti si trascinano a casa e anche dalle finestre dei monolocali ammobiliati scompaiono le luci.
Alla fine, nel silenzio e nel buio,
Old England was all alone.
3 febbraio 2020