di Claudio Pollastri
E’ una cronaca fatta di emozioni sfuggite al self-control e di lacrime filtrate dal pudore, un puzzle di vibrazioni dell’anima e sensazioni border-line raccolte al seguito di Papa Francesco in visita alla Casa Circondariale di San Vittore, a Milano, sabato 25 marzo. Ho incontrato per lavoro il Santo Padre in altre occasioni in Vaticano ma accompagnarlo tra i “figli dimenticati” mi ha regalato momenti così intensi che vanno al di là e molto più in su della cronaca. Una realtà a un amen dal sogno che richiederebbe la sensibilità dei poeti che sanno spiegare le ragioni dello spirito che la ragione spesso non conosce.
Un conflitto intimo tra il cronista e il cattolico che avevo previsto ma che non sono riuscito a evitare perché svanisce ogni precauzione emozionale quando incontri una figura come Papa Francesco che sa abbattere col suo sguardo buono e diretto da “semplice sacerdote” ogni barriera ideologica, razziale e religiosa e riesce a smuovere le pieghe più sensibili anche dei cuori più scettici. A mia parziale consolazione vi era la constatazione che altri colleghi profondamente laici e immuni da contaminazioni di fede condividessero la mia stessa commozione anche se fingevano un disincanto ipocrita per non arrendersi al fatto che davanti a Papa Francesco crolla ogni distacco professionale.
La prima volta di un Pontefice nel carcere milanese inaugurato nel 1879 che aveva conosciuto il sorriso altruista della beata Enrichetta, la suora soprannominata “ la mamma di San Vittore ”, non poteva che essere “dell’Uomo venuto quasi dalla fine del mondo” per regalare un soffio di tenerezza ai “dimenticati dalla società” e per infondere speranza a chi vede il cielo solo dalle sbarre della propria cella. Gli occhi lucidi per la commozione, gli sguardi quasi increduli degli agenti di polizia penitenziaria, la composta commozione della direttrice, della vice e della comandante delle guardie (una struttura direzionale tutta al femminile) raccontavano più che mille parole il momento storico che stavano vivendo.
Le strette di mano spontanee, gli abbracci fraterni, le parole appena sussurrate, la richiesta timida di una benedizione speciale, i sorrisi che diventavano risate serene e liberatorie dei detenuti che il Papa ha voluto salutare uno per un uno trasmettevano a Francesco il sincero ringraziamento per avere applicato nel breve spazio di un paio d’ore la legge del cuore anziché quella dei codici.
Il Vicario di Cristo ha salutato i detenuti che lo aspettavano nella “rotonda” del carcere subito dopo l’ingresso con la frase che ha segnato l’intera permanenza “vedo in ciascuno di voi Gesù” e ha continuato ringraziando tutti i carcerati per l’accoglienza e per averlo fatto sentire “come a casa”. Il momento più toccante è stato quando è arrivato con la Papamobile in Piazza Filangieri 2 e ha commentato “non ho il coraggio di dire a chi finisce in carcere: se lo merita… ma penso dentro di me: perché loro e non io?”.
La visita è proseguita nella riservatezza richiesta dal Papa che non voleva trasformare in passerella mediatica il viaggio nella sofferenza di chi si sentiva emarginato, relegato nella periferia umana e aspettava dal Santo Padre l’ombra di un sorriso e il riflesso di un attimo di luce nel buio metaforico di chi vive in prigione. Pochi istanti rubati al selfie, brevi riprese televisive per immortalare il pranzo coi detenuti basato sui tipici piatti meneghini come risotto e cotoletta e gli incontri sono continuati a telecamere spente, senza i flash dei fotografi e con i taccuini dei cronisti come unici testimoni di una comunione di anime alla ricerca di una fraternità universale che Papa Francesco ha saputo regalare.
Sono rimasti nel chiuso del cuore del Santo Padre le lacrime disperate delle mamme carcerate con i loro bambini dell’Icam (Istituto a custodia attenuata per madri), le accorate confidenze delle detenute, le sofferte testimonianze raccolte negli altri settori come Clinico, Protetti, Giovani Adulti. Parole di sincera ammirazione e profonda riconoscenza verso i rappresentanti dei volontari, educatori, sanitari, operatori incontrati nel corridoio del Comando. Francesco ha portato con sé le lettere e i bigliettini ricevuti dai carcerati con pensieri semplici ma di intensa gratitudine e speranza.
E quando se n’è andato ha lasciato tra le mura antiche e cariche di storia del carcere che aveva recluso durante il periodo fascista Indro Montanelli, Mike Bongiorno e Liliana Segre appena tredicenne il ricordo di “un padre vestito di bianco” che ha voluto mettere una mano protettiva sulla testa di tutti i suoi figli che hanno sbagliato per la legge ma non devono e non possono diventare degli invisibili. I carcerati l’hanno capito nel profondo e l’hanno salutato con la sorridente malinconia di quando parte una persona cara liberando nel vento che cominciava ad accarezzare San Vittore la promessa di pregare per lui, semplicemente Francesco, che ha voluto mettere in pratica con loro l’insegnamento evangelico “ero carcerato e mi avete fatto visita”.
La cronaca dei fatti finisce qui, quella delle emozioni continuerà ancora per molto tempo nei cuori di chi vive oltre le mura spesse di San Vittore.