Pubblichiamo interamente l’omelia del Cardinale Tettamanzi che stamane ha celebrato la Pasqua insieme ai detenuti del carcere di Monza.
“Carissimi, ringrazio il Signore che mi dona di celebrare oggi l’Eucaristia con voi e per voi in questa Casa circondariale di Monza.
Vi sono entrato come un prete che la domenica entra nella chiesa della sua comunità parrocchiale per celebrare l’Eucaristia. La vostra infatti può dirsi, in qualche modo, una parrocchia: una parrocchia non piccola piccola, perché so che in questo carcere sono ospitati circa 600 detenuti e circa 400 Agenti di Polizia Penitenziaria. Ma la vostra è una parrocchia “speciale”, avente come cammino d’impegnarsi non semplicemente alla doverosa “punizione” ma soprattutto alla “riabilitazione”, anche se quest’ultima trova in voi difficoltà ad ottenere i benefici necessari e ad avere possibilità concrete di lavoro.
Ancora: la vostra è una comunità che nelle diverse sezioni ha i suoi cambiamenti, come è stato con la soppressione delle sezioni di Alta Sicurezza e con la chiusura del detentivo femminile.
E ancora: la vostra comunità si caratterizza per il diverso volto delle persone, dai detenuti per reati comuni ai protetti e ai collaboratori di giustizia.
E come avviene in ogni parrocchia, non manca da voi il prete, il cappellano. E qui mi è data l’occasione di ringraziare di cuore don Daniele e don Augusto per il prezioso servizio religioso e umano rivolto a tutti voi, in particolare a quanti cercano e trovano nel rapporto con Dio e nella preghiera un aiuto importante per la vita d’ogni giorno, specie nei momenti di stanchezza e di sofferenza.
In particolare il prete è per voi necessario per la celebrazione dell’Eucaristia – che è il centro, il cuore della nostra vita spirituale. Così come il prete è necessario per annunciare e spiegare nella catechesi la Parola che più di tutte le altre conta, cioè il Vangelo del Signore Gesù. Quella di Gesù è una parola che si può apprendere e apprezzare frequentando l’ora di catechesi svolta dai volontari: è una parola che ci fa scoprire il grande dono della libertà autentica, intesa non come arbitrio più o meno egoistico e capriccioso, ma come vera e propria responsabilità: qualcosa che trova nell’intimo del nostro cuore il desiderio e la spinta di vivere con coerenza e con slancio la verità – la dignità e il valore – del nostro essere di persona.
L’azione pastorale in carcere trova il suo “centro” nell’Eucaristia domenicale. Questa – mi si dice – viene partecipata con attenzione da quasi 200 persone alle quali si aggiungono anche i credenti di religione musulmana. E così la Pasqua cristiana che oggi celebriamo costituisce un invito forte a riprendere e a continuare con fedeltà e con fervore la partecipazione all’ascolto della Parola di Dio.
Mi è stato anche detto che c’è stata molta attesa per la riapertura della Cappella, da quattro anni inagibile. Grazie alla generosità di alcune persone e al lavoro degli stessi detenuti, la scorsa domenica 13 marzo è stata aperta la “Porta” di questa Chiesa con una celebrazione che ha visto detenuti e agenti profondamente coinvolti, persino commossi. Proprio il Giubileo della Misericordia indetto da papa Francesco tiene desto l’interesse anche nell’ambito carcerario soprattutto per l’aspettativa dell’amnistia.
In tutto questo contesto è stata presa in considerazione una pagina assai bella del vangelo di Luca che presenta la figura di Zaccheo, mettendo in luce in particolare tre brevi ma significativi aspetti.
Il primo è quello di Zaccheo che sale sull’albero perché, nonostante tutto, vuol vedere ad ogni costo Gesù. Questo ci dice che l’uomo non si identifica né si esaurisce con il reato da lui commesso, ma porta sempre nel profondo di sé un desiderio di bene, un desiderio che non può essere totalmente cancellato dalla forza del male e della cattiveria umana.
La seconda riflessione riguarda l’incontro di Gesù con Zaccheo. È vero che Zaccheo vuole “vedere” il Signore, ma ancor più è il Signore stesso a voler “vedere” Zaccheo e ad “accoglierlo” per quello che è, senza chiedergli tassativamente cambiamenti di vita.
È Zaccheo stesso che giungerà a decidere di restituire le sue ricchezze e di condividerle con gli altri. E questo come precisa esigenza di giustizia.
Il cappellano don Augusto mi ha confidato due suoi desideri, desideri capaci di dar vita ad una rinnovata programmazione pastorale in carcere. Partendo dalla sua esperienza don Augusto si interroga sul fatto che spesso i detenuti dicono sì: “ho sbagliato… e quindi pago”, non parlano però di pentimento e non fanno riferimento alla sofferenza inferta alle persone danneggiate; si limitano a guardare alla propria sofferenza e, al limite, a quella della propria famiglia.
Di qui una domanda che può collegarsi con il Giubileo che tutta la Chiesa sta celebrando in questo Anno Santo. È possibile che alcune persone che hanno subito delle sofferenze dovute a reati siano disposte ad incontrare i detenuti e a parlare della loro sofferenza lasciando poi spazio a eventuali riconciliazioni.
Un secondo momento, poi, è quello di far incontrare le persone detenute con esperienze positive di impegno e di testimonianza – di servizio alla società danneggiata – per destare in loro la nostalgia e quindi il bisogno del bene. In verità non basta lavorare sul reato: troppo spesso ci si giustifica e ci si considera vittime. Bisogna lavorare sul bene. Solo il bene “costruisce”!
Concludiamo rinnovando a tutti e a ciascuno l’augurio della Pasqua cristiana: “Alleluia! Cristo Signore è risorto!”. È risorto facendo vincere il bene sul male, la vita sulla morte, il dono di sé sull’egoismo, la fraternità sulle divisioni e contrapposizioni, la giustizia sulla ingiustizia, la pace sulla violenza e sulla guerra.
“Cristo Signore è risorto”: è dunque vivo, vicino a ciascuno di noi, presente nell’intimo del nostro essere, desideroso di fare nuova la nostra vita quotidiana, arricchendola d’amore per Dio nella preghiera e d’amore per tutti i nostri fratelli in un servizio tanto umile quanto generoso e coraggioso”.
+ Dionigi Card. Tettamanzi
S. Pasqua 27 marzo 2016