Al momento l’unico sicuro perdente degli annunci del neo-presidente Donald Trump in materia di commercio estero è il Messico. Non tanto per le affermazioni xenofobe anti-messicane utilizzate in campagna elettorale per scaldare la parte peggiore dei suoi elettori, ma perché la fine annunciata, o almeno il ridimensionamento, dell’accordo NAFTA che unisce i paesi nordamericani, minaccia la stabilità complessiva del Messico.
Sono bastati gli annunci di penalizzazione delle aziende americane che producono oltre il rio Bravo per svalutare il peso di oltre il15%. Ora si passa a questioni ancora più serie, come la decisione della Ford di cancellare un investimento di 1,6 miliardi di dollari in Messico, dirottando 700 milioni nel Michigan. Stiamo assistendo forse all’inizio della crisi della globalizzazione delle merci, alla messa in discussione del mercato mondiale.
Ma il caso del Messico è ancora diverso. I legami che uniscono i due paesi vicini sono molto profondi. Il Messico ha “regalato” all’Unione del nord importanti e ricchi territori come il Texas e la California e ha contribuito allo sviluppo dell’economia statunitense attraverso l’immigrazione che è stata decisiva nei settori dell’agricoltura e dei servizi in diversi stati. Il Messico oggi conta 122 milioni di abitanti, ai quali si sommano almeno altri 15 che vivono e lavorano negli Stati Uniti. Un piccolo gigante demografico del Nord America che nel 2004 ha fatto la mossa più impegnativa della sua storia contemporanea, firmare il trattato NAFTA insieme a Stati Uniti e Canada. Un accordo di libero scambio di merci e servizi, non di persone, che segna l’avvio della delocalizzazione dell’industria statunitense ingolosita dal basso costo della manodopera messicana.
A distanza di 23 anni, il bilancio del NAFTA è molto controverso. Lo scambio commerciale tra i due paesi è aumentato del 534%, ma la dipendenza del Messico dagli acquisti statunitense è da record, oltre il 75% delle sue merci vanno oltre confine. Un legame che non ha risolto i problemi fondamentali del paese Latinoamericano, come ad esempio la disoccupazione che ufficialmente è del 4%, ma che raggiunge il 14% tra sottopagati e lavoratori saltuari.
La calata delle industrie statunitensi, soprattutto nel settore meccanico, automobilistico e tessile non ha trasferito particolari competenze al comparto industriale messicano e il valore aggiunto di queste esportazioni è molto basso. In sostanza, l’industria messicana a distanza di 24 anni dalla nascita del NAFTA non è riuscita a rompere lo schema della “maquiladora”, cioè delle imprese-capannone nelle quali si assemblano semilavorati arrivati dall’estero per poi riesportare il prodotto finale. E questa è ancora la regola per il 75% dell’export messicano. Unico vantaggio è stata sicuramente la nuova occupazione che si è creata, che però nel suo insieme non raggiunge i 2,5 milioni di lavoratori. Anche l’arrivo di capitali, massicciamente nei primi anni del NAFTA fino a posizionare il Messico al 4° posto mondiale per attrattività, si sono spostati in Oriente fino a fare scivolare la piazza messicana al 20° posto.
Il dato più clamorosamente negativo è che la pretesa iniziale del NAFTA, quella di indurre processi di sviluppo nel mercato più debole, migliorando il livello di vita e fermando l’emigrazione è stato clamorosamente smentito. La differenza di salario tra gli Stati Uniti e il Messico è rimasta la stessa di 24 anni fa, mentre la popolazione messicana che vive nel paese del Nord è passata dai 6,5 milioni del 1994 ai 15 milioni attuali. Altra ricaduta negativa per il Messico è stata la devastazione della piccola e media produzione agricola, rovinata dall’arrivo senza dazi sul mercato locale delle eccedenze agricole sovvenzionate negli Stati Uniti e quindi più economiche. Una parte di quel tessuto di terre coltivate a mais è stata riconvertita all’economia della droga, marihuana e papavero da oppio destinati al mercato del nord. I Cartelli della droga messicani, insignificanti 20 anni fa e potentissimi oggi, sono stati tra i principali beneficiari delle aperture dei confini per le merci, tra le quali non sempre viaggiano prodotti legali.
Le promesse di Trump, di neo-protezionismo, ridiscussione dell’accordo NAFTA e penalizzazione delle imprese che hanno delocalizzato è un macigno pesantissimo sul futuro del Messico. Un rischio non solo per la sua economia fortemente dipendente dal vicino, ma addirittura per la sua stabilità. Un paese in preda alla violenza dei Cartelli, con una classe politica screditata e corrotta, con occupazione di bassa qualità e sottopagata, se privato dal suo polmone esportatore rischia di cadere in un processo di instabilità critica. I discorsi di Trump sul commercio mondiale possono funzionare, fino a un certo punto però, con la Cina che rimane comunque il primo creditore di Washington, ma nel caso del Messico dovrebbe considerare oltre l’interesse economico la geopolitica e la sicurezza nazionale. Un Messico abbandonato alla deriva può diventare una bomba ad orologeria lungo 3.000 chilometri di frontiera. E non ci sarebbe muro che tenga.