Premio SLAncio: La luce dell’orizzonte

Tra Buio e Luce. Concorso letterario PREMIO SLANCIO EDIZIONE 2022 promosso dal magazine Scriveresistere  – www.scriveresistere.it – la rivista scritta con gli occhi da persone con SLA.

Secondo classificato: La luce dell’orizzonte; di SILVIA FAVARETTO

Non dirò più una parola. In questo paese non si può più parlare, non si può più pensare, non si può nemmeno appoggiare lo sguardo su quello che si vuole. Sono venuti di notte a portare via mio marito, hanno preso quello che volevano dalla nostra casa e mi hanno violentato davanti agli occhi di mio figlio. Quando se ne sono andati non riuscivamo più nemmeno a parlare.

Non ci sono parole, la grande gioia e il grande dolore non sanno toccare le corde vocali. Quando conobbi il papà di Zaher, ammutolivo dall’emozione ogni volta che si avvicinava. Lui mi ha sempre detto che si è innamorato dei discorsi che gli facevano i miei occhi. Anche lui era un uomo di poche parole. In questo paese è sempre stato così: le parole vanno dosate, perché scappano attraverso i muri, dagli interstizi delle finestre chiuse male, in qualche lettera, e raggiungono chi non devono, anche quando non le hai mai pronunciate. Quando nacque Zaher la levatrice era stupita, perché nonostante i colpetti che gli dava, il bimbo non piangeva.

Si tranquillizzò vedendo che respirava serenamente e sembrava quasi sorridere con la sua piccola bocca arcuata.

Silvia Favaretto, a sinistra, con il racconto La Luce dell’orizzonte è la seconda classificata. Al centro Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Giuria, a destra Ferruccio De Bortoli che le consegnerà la scultura di Pietro Coletta

È sempre stato così il mio bambino, un piccolo sorriso e tanto da dire, ma non con la voce. Per lui fu una svolta imparare a scrivere. I miei unici tesori sono le sue letterine, i suoi disegni. Alcune mamme vanno fiere dei risultati agonistici dei loro figli, o se sono valorosi quando vanno soldati. Io sono orgogliosa dei ghirigori di mio figlio. Non sapevo leggere, ma lui mi ha insegnato. Per tutta la vita ha avuto solo due giochi: quattro statuine di legno che gli ha intagliato suo padre e la poesia. Gli animaletti erano un modo di suo padre per dirgli cosa davvero era importante. Quando gli diede la giraffa avrà avuto 6 anni e gli disse: “Figliolo, devi essere come la giraffa, saperti alzare dalla mediocrità degli altri per scrutare dall’alto l’orizzonte. È da lì che viene la luce, non dal buio della moltitudine ammassata”.

La giraffa era diventata la compagna costante dei suoi giorni, la teneva con sé anche nella tinozza. L’asciugavo subito per timore che il legno marcisse, ma resistette. L’anno seguente, credo, gli regalò, dopo averlo cesellato pazientemente per giorni, l’alce. “Eccoti un animale che vive nel grande freddo: lui ti insegna che è nella testa dove risiede la tua più grande arma di difesa. Le vedi queste grosse corna? Anche tu se hai idee solide e resistenti saprai difenderti da chi vorrà piegarti”. La giraffa e l’alce cominciarono una serie infinita di avventure tra le manine del mio bimbo e, di fronte ai pericoli, l’alce difendeva la giraffa con le sue corna e lei scrutava dall’alto un orizzonte migliore verso dove dirigersi.

A 8 anni Zaher ricevette la statuina del leone, che divenne immediatamente la sua preferita. “Sai perché il leone è il re? No, non perché è il più forte. È per la sua dignità. La sua è un’energia interiore che lo guida, lui sa quello che è giusto e avanza a testa alta per questo”. Ero riuscita a far stare il branco dei tre animaletti al bordo vasca, anche Zaher si era persuaso che così avrebbero resistito meglio al passare del tempo. Poi la guerra si era inasprita e nessuno più aveva avuto voglia né di intagliare, né di giocare. Ma a 12 anni, età in cui qui da noi sei considerato quasi un uomo, Zaher ricevette una rondine di legno. “Questo è un animale speciale. Rappresenta la libertà.

Non è ancorato ad un luogo. Quando le condizioni non sono favorevoli, si alza in volo e se ne va, a cercare habitat e temperature più ospitali”. Non lo sapeva Zaher che quello sarebbe stato l’ultimo animaletto che gli avrebbe costruito il papà. Lo capì definitivamente quando, dopo quella sera terribile, mio marito non tornò più. Sapevamo entrambi che di lì a poco sarebbero tornati e avrebbero preso anche lui. Non mi stupii e, anzi, sentii un profondo sollievo, quando mi disse “Mamma, devo andarmene da qui. Cercherò di raggiungere l’Europa, come ha fatto Ali mio cugino. Odio l’idea di lasciarti da sola, ma stando qui non posso fare nulla per migliorare la nostra situazione. Vado via e poi ti faccio venire lì dove sarò e saremo tranquilli. E saremo felici”.

Io quasi riuscivo ad immaginarmi lì con lui. Nessuna madre desidererebbe mai separarsi dal proprio figlio, ma quando la partenza garantisce a lui una maggior possibilità di sopravvivenza, l’addio deve essere più lieve, deve essere la promessa di un rincontro: non piansi davanti a lui, solo lo abbracciai dicendogli “ricordati gli insegnamenti di tuo padre”. Lui sorrise stringendomi ancora di più, era già alto quanto me: “Li porto con me, mamma: ho già messo nello zaino la giraffa per guardare lontano, l’alce per difendermi usando la testa, il leone per usare la dignità e l’energia interiore, e la rondine per cercare un luogo migliore per noi due”.

I primi giorni dalla sua partenza furono strazianti. La speranza non era sufficiente a tranquillizzarmi. L’inquietudine si trasformò in dolore fisico, come se lo stessi partorendo di nuovo, tredici anni dopo. Mi trasferii a casa di mio fratello, dove giorno dopo giorno la mia anima sopravviveva attendendo notizie. Dopo un paio di mesi arrivarono notizie di qualche conoscente che sosteneva che suo figlio l’aveva incrociato in Iran o in Turchia. Poche parole sussurrate che avevano su di me un effetto di gioia improvvisa, una felicità che mi lasciava senza parole, saperlo vivo e in viaggio, col suo zainetto. Oltre alle statuine degli animali aveva portato con sé una borraccia e il suo quaderno di poesie: “Scriverò molto piccolo, mamma, così mi durerà per più tempo”.

Lo immaginavo sorridente in un paese lontano dove finalmente era al sicuro, vedevo me stessa raggiungerlo e vederlo in un appartamento piccolo ma curato, con sopra al tavolo una pila di bei quaderni nuovi, pronti a ricevere i suoi versi.

Oggi la mia vita è finita. Respiro ancora, perché il corpo è una macchina imperfetta. Quando muore il cuore dovrebbe fermarsi tutto, così dicono. Invece no, so di per certo che il mio cuore è morto, eppure i polmoni funzionano, anche se la bocca non è in grado di dire parole. Mi hanno fatto arrivare il quaderno di Zaher, assieme alla notizia che una notte, nascosto sotto ad un camion per raggiungere la frontiera, in Italia, non è riuscito a restare aggrappato, è caduto e le ruote lo hanno schiacciato. Accanto a lui hanno trovato lo zainetto con le statuine, che non sono bastate a proteggerlo, e questi fogli scritti fitti fitti, a cui mi aggrappo per sentirlo ancora vivo, per un’ultima volta. È successo tanti mesi fa, ci hanno messo parecchio a trovarmi per darmi la notizia e consegnarmi queste pagine. Mi hanno detto anche che in quel luogo hanno fatto una scultura e dedicato un bosco al mio bambino. Allora anche se da oggi io sono morta e non avrò mai più parole da pronunciare, quelle di Zaher saranno ricordate in quel posto per sempre e spero che la gente sappia di mio figlio e di tutti quegli altri ragazzini che muoiono cercando di raggiungere, con lungimiranza, dignità e voglia di libertà, un orizzonte più luminoso di questa oscurità in cui stiamo. Perché germoglino le tue parole, figlio, anche nella terra secca della mia gola.

 

Giardiniere, apri la porta del giardino;
io non sono un ladro di fiori,
io stesso mi sono fatto rosa,
non vado in cerca
di un fiore qualsiasi

(ZaherRezai, 2008)

 

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