Prigionie

default-aspxQualche settimana fa la redazione di Scaccomatto ha intervistato telefonicamente il giornalista Domenico Quirico, inviato di guerra del quotidiano torinese La Stampa, rapito in Siria nell’aprile 2013 e liberato dopo 5 mesi di prigionia. 

Perché giornalista, e perché giornalista di guerra?

Perché mi piace raccontare le storie degli uomini e il senso del mestiere è proprio quello, attraversare le vicende degli uomini, trasformarle in parole. Perché giornalista di guerra? Perché, ahimè, la guerra è il luogo in cui incontro tutti gli aspetti dell’umanità, da quelli più commendevoli a quelli più terribili.

Quali sono stati i suoi primi pensieri al momento della cattura?

È una storia molto vecchia, ormai. I miei primi pensieri sono stati (risata)… è difficile spiegare tutto il contesto. Ho pensato che ero stato tradito da coloro in cui avevo fiducia.

Lei riferisce come unico “gesto di pietà umana” quando il soldato le ha prestato il suo cellulare: che cosa ha provato?

La rarità di un gesto umano nel silenzio totale di tutto ciò che è umano.

Lei ha detto che se la sua fuga fosse riuscita, questo le avrebbe dato enormi problemi morali. Perché?

Perché per sfuggire in una certa situazione – che poi non si è realizzata – avrei dovuto uccidere altri esseri umani e non so se questo, anche se lo scopo per cui lo facevo era, come dire, totalmente accettabile anche da un punto di vista diciamo legale – cioè liberarmi da una condizione ingiusta – non so se dal punto di vista etico questo sarebbe stato per me accettabile.

 

Lei è stato imprigionato per diversi mesi; anche noi a volte ci sentiamo imprigionati nella nostra malattia. Che differenza c’è, secondo lei, tra una prigione forzata e imposta da altri e quella che viene da noi stessi?

Non credo ci sia una grossa differenza. Il rapporto che lega le due esperienze è quello con la sofferenza e il dolore e questo è estremamente unificante. Io dico sempre che il dolore è l’unica forma di Comunismo che conosco.

Dove ha trovato, in questi mesi, la forza per sopravvivere e restare lucido?

Beh, io sono credente. La presenza di Dio, in quella situazione così estrema, mi ha aiutato a resistere, a continuare a pensare che ci fosse un domani ancora.

Quali sentimenti provava per i suoi sequestratori: odio, rancore e disprezzo, oppure anche pietà e misericordia?

(Risata) Ha enunciato una varietà di sentimenti totalmente contraddittori l’uno con l’altro. Quello che posso dire, e che ho anche detto quando sono tornato, è che se io odiassi queste persone, resterei loro prigioniero per sempre perché il legame con loro e il legame con l’odio non si sarebbe mai spezzato, non si spezzerebbe mai. Ma da qui ad arrivare al concetto (breve pausa)…io non sono un santo e quindi il concetto di amore o di perdono non mi appartiene perché non mi appartiene le santità.

Riguardo alla Primavera Araba e alla situazione della Siria, secondo lei, ci sarà una “fine” della guerra e una ricostruzione del Paese? Quali sono le aspettative, i fatti e i cambiamenti reali e possibili? E all’interno di questo scenario, come si inserisce il fenomeno migratorio?

La Siria unita, come la conosciamo oggi e come l’abbiamo conosciuta in passato, non esisterà mai più. Gli scenari possibili sono sostanzialmente…uno: la divisione del Paese in regioni, in entità diverse; una parte sotto Bashar al-Assad, una parte sotto i Curdi e una parte Sunnita, che si chiami Califfato o che si chiami in altro modo, questo è da definirsi. Il fenomeno migratorio si inserisce, nel senso che è in parte determinato da questa guerra, ma il fenomeno migratorio non è solo legato al crescere, allo svilupparsi, all’estendersi dell’Islam radicale e totalitario. Il fenomeno migratorio è molto più complesso. Una parte dei migranti sono siriani, questa è una costatazione di fatto, ma la migrazione non è causata dalla guerra in Siria. Anche dalla guerra in Siria, ma non totalmente.

Che valore ha, per lei, adesso la fiducia negli altri?

Se io non avessi più fiducia negli altri, non continuerei a fare il mio mestiere nei termini in cui continuo a farlo. È evidente che andando in luoghi pericolosi mi devo sempre affidare a qualcuno.

Cosa è diventato Dio per lei? Questa esperienza ha cambiato la sua fede e il suo modo di credere?

Non è diventato niente che non fosse già prima, una presenza fondamentale per qualsiasi forma di esistenza sulla Terra.

Come vede lei il confronto tra le due fedi, quella cristiana e quella musulmana?

Confronto in che termini, in termini reali o astratti-filosofici? Il secondo aspetto non mi appartiene perché non sono un conoscitore della teologia islamica. Nei termini reali, storici, in cui si presenta l’aspetto dominante dell’Islam moderno è quello radicale, quello violento. Non è che sia l’unico, ma è quello prevalente in questo momento. Forse per opera di una minoranza, ma per una minoranza trascinante. Il confronto tra le due è il confronto tra una religione aggressiva, guerriera, che intende unificare il proprio spazio religioso, politico, economico, sociale, e una fede che non esiste più: timida, in ritirata, inconsapevole di se stessa.

Cosa significa e come si fa a vivere senza libertà e senza poter fare nessun progetto, ma con l’unico obiettivo di sopravvivere?

Lei sta dando la definizione in cui sopravvive i due terzi del genere umano. Guardi, si sopravvive benissimo, purtroppo, nel senso che non c’è una scelta. Due terzi del genere umano non ha la possibilità di scegliere, non ha un progetto di vita che al mattino si svegliano e dico: “Beh, non voglio più fare l’impiegato, voglio fare il manager della Pirelli”. Due terzi del mondo vivono senza luce, senza acqua e senza lavoro; zappano la terra per cercare di portare a casa qualcosa da mangiare. È un miracolo, dirà lei. Beh, sì, è un miracolo di tenacia, di adattamento, di forza, di fede anche.

Durante la prigionia ha sofferto più mentalmente o materialmente? Ha avuto in seguito un sostegno psicologico?

Non so cosa sia il sostegno psicologico, è una cretinata che hanno inventato i giornali. Se avessi bisogno di un sostegno psicologico, sarei in manicomio. Non ho bisogno del sostegno psicologico di nessuno.

Dopo due anni ha deciso di tornare in Siria: quando e perché ha deciso e come ha reagito la sua famiglia a questa decisione?

Beh, come ha reagito la mia famiglia, lo deve chiedere alla mia famiglia, non a me. Perché ho deciso di tornare in Siria? Perché il mio lavoro è raccontare cosa succede. Siccome la Siria è una parte fondamentale di quanto accade oggi, ho deciso di tornare in Siria. Non posso pensare che ci siano dei luoghi in cui non posso andare per faccende mie private. Io devo raccontare qualcosa che ritengo interessante, anzi, più che interessante, drammaticamente fondamentale. Non conosco altri modi per farlo, sennò mi occuperei di teatro, di economia e di atre quisquiglie simili.

È possibile dopo un’esperienza così forte e traumatica tornare alla “normalità”? Con quale atteggiamento?

È una domanda che sinceramente non comprendo. Io faccio un lavoro in cui esiste la possibilità di morire o di vivere esperienze come quella che ho vissuto…non era la prima volta e penso non sarà neanche l’ultima, è assolutamente consostanziale a quello che fai. Il concetto di normalità per me è andare in Siria. Se lei fa il vigile del fuoco, la normalità sua qual è? Quella di finire in mezzo alle fiamme, di doversi arrampicare sulla scala tra palazzi che crollano, il gettarsi nell’acqua per salvare qualcuno. E senza fare paragoni tra l’importanza del lavoro del vigile del fuoco e l’irrilevanza del mio, vale anche per il mio. Cioè io devo andare in certi posti e andare in certi posti significa certe cose. Punto. Finito. Non c’è nessun pathos, nessun eroismo né irresponsabilità. C’è la normalità, come ha detto lei.

Crediamo non sia possibile dimenticare. Ma come si può convivere e fare tesoro anche di un’esperienza di questo tipo?

Il concetto di memoria è un concetto molto elastico. Ci sono casi in cui la memoria è obbligatoria e ci sono casi in cui non avere memoria è altrettanto obbligatorio. Una persona che ho incontrato il giorno prima di essere sequestrato mi ha detto una frase che mi sembra lapidariamente intelligente: “I ricordi sono fatti per essere gettati nella spazzatura”.

 

 

image_pdfVersione stampabile