testo di Luca Novelli da Giannella Channel
Cosa leggevano, come giocavano, cosa facevano i Grandi quando erano piccoli? L’infanzia dei Grandi intriga. Ecco perché ci interessano le loro avventure e disavventure, scolastiche e familiari. Ecco perché piacciono ai ragazzi: fanno sperare di andar lontano.
Albert Einstein ha ereditato da sua mamma Pauline il naso, la chioma arruffata e l’ironia tagliente. Da suo padre Hermann ha preso ben poco, oltre la testa grossa. Da piccolo nessuno scommetterebbe un marco sul futuro del più grande genio del XX secolo. Quando Albert nasce ha il cranio “grande e ossuto” così strano da far preoccupare i genitori.
La sua prima infanzia è leggendaria: Albert bambino è lento e tranquillo, sembra un po’ ritardato. Sua madre fa funzionare la casa e quadrare i conti. Suo padre Hermann è un imprenditore, un po’ sognatore e poco pratico, perseguitato dai fallimenti. Non ha finito l’università, a differenza di suo fratello Jakob che è ingegnere elettromeccanico e pieno di iniziative. È grazie a zio Jakob che la famiglia Einstein gode di un periodo di agiatezza. Jakob infatti nel 1880 chiede al fratello di diventare suo socio in una ditta di “acqua ed elettricità” di Monaco. Cosi da Ulm, dove Albert era nato l’anno prima, tutta la famiglia Einstein si trasferisce a Monaco. La casa è sontuosa. È una villa a due piani con un ampio terrazzo e il giardino all’inglese. La ditta prospera e nel 1888 fornisce luce ed energia elettrica a diecimila abitanti della vicina cittadina di Schwabing. Così la prima infanzia di Albert si svolge in un periodo brillante e felice di suo padre e di suo zio Jakob. A tavola si parla di dinamo e lampadine elettriche, come oggi si parla di tablet e telefonini. Il futuro è un radioso mondo elettrico. Mamma Pauline è una padrona di casa soddisfatta. Il rotondetto piccolo Albert parla poco e ascolta molto.
Otto anni da bambino
Gli aneddoti su Einstein bambino abbondano. A quattro anni viene lasciato nelle viuzze del centro di Monaco e deve tornare a casa da solo, sorvegliato a distanza. Nessun problema. Se la cava benissimo. Quando nasce Maja, la sua sorellina, gli viene detto che potrà giocare con lei. Lui replica:
Sì, ma dove sono le ruote?
Quando s’arrabbia – e gli accade spesso – diventa giallo in faccia, fuorché la punta del naso che diventa pallida. Impara a parlare piuttosto tardi e fino a sette anni ha il vizietto di ripetere più volte la frase sottovoce. A nove anni parla ancora con qualche intoppo. In pratica impara a suonare il violino (a cinque anni) prima d’aver imparato a parlare decentemente. Suona Mozart, Bach e Schubert. Il talento per la musica è una delle doti ereditate da sua mamma. Pauline suona il piano spesso e volentieri, anche a quattro mani con i colleghi del marito e dello zio.
A sette anni Albert finalmente va a scuola. È una scuola cattolica privata e lui è l’unico ebreo della classe. Avrà buon ricordo degli insegnanti, meno buono dei suoi compagni di classe. Qualche bullo c’è anche nel 1886. Ma in genere non considera i suoi compagni “troppo cattivi”.
Il suo rendimento scolastico non è eccezionale, ma neppure disastroso. Qualche volta è persino “primo della classe”. Probabilmente è un allievo “che può fare di più”.
Cacciatore di x
Albert bambino ragiona per immagini, diranno un giorno gli psicologi. Purtroppo non ci sono arrivati i suoi disegnini. Sappiamo però che è bravissimo a montare complesse costruzioni con i cubetti di legno antenati dei nostri mattoncini Lego. Con le carte da gioco – ricorda sua sorellina Maja – riesce a realizzare castelli anche di nove piani.
La figura familiare che più influenza il piccolo Albert è certamente zio Jakob. Gli racconta storie e lo aiuta a fare i compiti. Jakob ha inventato un modello di dinamo. Parla di imprese grandiose, di dighe, di macchine straordinarie e treni elettrici che già corrono sopra Berlino. Usa un linguaggio semplice e immediato anche con lui. Gli spiega l’algebra in un modo che ricorderà per tutta la vita:
L’algebra è una scienza allegra, dove si va a caccia di un animale misterioso chiamato x.
Papà Hermann, mentre Albert è a letto febbricitante, gli fa un regalo inaspettato: una bussola (foto a destra). L’ago misteriosamente si allinea sempre verso il Nord. È attratto da una forza e obbedisce a un principio che oggi fa funzionare tutto il nostro mondo. Albert la terrà cara e la ricorderà come il dono più importante ricevuto da suo padre, quell’ago muove la sua curiosità infinita.
Una adolescenza quasi normale
Papà Hermann e mamma Pauline sono ebrei non praticanti. L’istruzione religiosa al piccolo Albert viene impartita da qualche parente. In modo piuttosto fruttuoso perché troviamo Albert undicenne nel ben mezzo di una tipica crisi mistica adolescenziale. Rifiuta di mangiare carne di maiale (lui che adora le salsicce) , compone e declama ad alta voce inni al Signore e critica apertamente l’indifferenza religiosa dei genitori. La Bibbia è il suo libro preferito. È affascinato dalle immagini grandiose evocate dall’Antico Testamento: il Paradiso perduto, mari che si aprono, angeli che scendono in terra, persone trasformate in statue di sale. Wow! Poi casa Einstein comincia a essere frequentata da un giovanotto di nome Max Talmey. È uno studente di medicina ebreo che si guadagna da vivere dando lezioni private. Il piccolo Einstein con Max discute e si confronta. Su consiglio di Max legge i libri di divulgazione (quelli illustrati) di Aaron Bernstein, un giornalista e scrittore. È molto popolare in Germania fin dai moti rivoluzionari del ’48. non solo per le sue simpatie socialdemocratiche, ma perché è un ottimo e aggiornato divulgatore.
I libri di Bernstein contengono tra le righe idee tutt’altro che banali, sull’Universo, sulla luce, sulle onde elettromagnetiche e sugli atomi. Sono tutte idee che diventeranno territori di esplorazione proprio di Einstein giovanotto. L’effetto principale di queste letture è che dissolvono la crisi religiosa di Albert, lasciando poche ma significative tracce nella sua personalità di adulto. “Dio non gioca a dadi”, dirà quando si troverà davanti gli aspetti più inquietanti della fisica quantistica.
Pessimo in greco antico
Albert al ginnasio si comporta bene in quasi tutte le materie. Non è eccezionale, ma studia senza fatica e legge molti libri per i fatti suoi. Non ama le lingue morte o perlomeno il modo in cui gli sono insegnate. Si guadagna così la famosa frase “non combinerai mai niente nella vita” dal suo professore di greco, che così è passato alla storia. Professori così li abbiamo conosciuti anche noi, per fortuna sono rari.
Albert detesta l’ora di ginnastica e ancora di più le marce e le esercitazioni collettive che mirano a formare i futuri cittadini dell’Impero. Questa avversione crescerà nel tempo e diventerà antimilitarismo puro, non molto gradito nella patria di Bismarck.
Ma altri problemi si addensano sul giovanissimo Albert. L’impresa di papà Hermann e di zio Jakob fallisce, stritolata da concorrenti più agguerriti. Per la famiglia Einstein è un disastro, i due fratelli devono chiudere la fabbrica e vendere tutto. La bella casa con gli alberi secolari trova subito un acquirente. Verrà abbattuta e il giardino diventerà un quartiere di brutti condomini. Mamma Pauline cade in depressione. Papà Hermann si dispera, ma non demorde. Con Jakob decide di pagare tutti i debiti e di investire quello che rimane in Italia, dove l’industria idroelettrica è agli inizi. Si trasferisce a Pavia, sul fiume Ticino, dove aprirà una fabbrica. Porta con sé Pauline e la piccola Maja. Albert viene lasciato a Monaco, in una modesta pensione. Ha quindici anni, ha perso i genitori, la sorellina, la casa che amava e tutto quello che gli era caro. Il futuro non gli piace: altri anni con un professore di greco che lo considera inetto e disfattista. E poi marciare, marciare e marciare con i suoi compagni di liceo.
L’arrivo in Italia
La famiglia Einstein a Pavia vive in una casa modesta ma storica, dove aveva abitato anche il poeta Ugo Foscolo. Poche biografie di Einstein lo ricordano e gli Einstein non hanno dato peso alla cosa. Pauline e Hermann hanno altre cose a cui pensare. I conti in casa non tornano mai. Tutto si aspettano fuorché il figlio Albert che bussa alla loro porta.
Il ragazzo è scappato, da Monaco, dal professore di liceo antipatico e dalle marcette militari. Era caduto in depressione come mamma Pauline, oppure l’aveva simulata così bene da ottenere un certificato medico che attestava un esaurimento nervoso. Il preside lo aveva letto e – perplesso – lo aveva lasciato libero di abbandonare la scuola. Comunque ecco che Albert è dove voleva essere, in Italia, in primavera, con i suoi genitori e il suo violino, unico bagaglio che si è portato appresso nel lungo viaggio in treno da Monaco a Pavia. In Italia vedrà per la prima volta il mare, a Genova, che raggiungerà attraversando a piedi l’Appennino. Sarà una delle estati più piacevoli della sua vita.
Un bel tipetto, Einstein ragazzino.