Quando io ti tormentavo

La Redazione di Scaccomatto

Sotto l’incalzare di siffatte torture, quel poco di bene che ancora restava in me scomparve. Pensieri malvagi divennero i miei soli compagni, ed erano i più tetri, i più malvagi dei pensieri.

Edgar Allan Poe, Il gatto nero

Quando io ti tormentavo non ero uno “stalker”. Mancava ancora qualche anno alla diffusione in Italia di questa parola, e probabilmente anche del relativo concetto.

All’inizio non ci siamo quasi accorti l’uno dell’altra. Tu venivi dalla terza media, io da un brutto primo anno, a scuola e non solo. Avevo deciso di riprovare il liceo classico ma non più quello della mia città. Per la prima volta non mi sono sentito a disagio nei rapporti coi compagni, sembravo stranamente sicuro di me. Il divario tra le medie e il liceo è abissale, io a differenza vostra non dovevo affrontare quell’impatto.

Ci siamo conosciuti meglio solo dopo esserci trovati per caso compagni di banco. Sei diventata la mia migliore amica. Le mie stranezze e debolezze poco a poco venivano fuori, con te più che con gli altri perché con te mi lasciavo andare. Sentivo il bisogno di qualcuno che ascoltasse, di una psicologa della mia età. Ne avevo anche una vera, ma con te mi piaceva di più. Tu eri dentro la storia, partecipavi, mi emozionavi. Ti preoccupavi. Eri più attraente di qualunque ragazza con cui avessi mai scambiato più di due parole (si trattava comunque di poche ragazze), per quale motivo mi trovavi interessante? Non importa, mi trovavi interessante. Avevi qualche esperienza con i ragazzi, tra noi due eri tu quella grande in realtà, a dispetto del dato anagrafico e del tuo viso da dodicenne. Siamo stati insieme due giorni e quattro ore, poi hai cambiato idea. Avevi diritto a cambiare idea?

Che razza di domanda, ma per me la risposta non era scontata. Anzi sì. Non ne avevi diritto. Era mai possibile che tu non mi volessi più bene? No, questo non era cambiato, ma mi ci sono voluti mesi perché ti credessi. Intanto eri oggetto del mio odio, paziente vittima dei miei pianti, delle mie recriminazioni, della mia disperazione, delle mie minacce di suicidio eventualmente preceduto da omicidio. Impazzivo all’idea che forse non mi ero preso tutto quel che avrei potuto: a sapere che sarebbe stata così breve, mi sarei dato da fare per toccare di più. Mi sentivo truffato.

In primavera sono arrivati i miei attacchi di panico, terrore puro. Mi serviva disperatamente una figura tranquillizzante che mi ascoltasse, chi meglio di te? Senza alcun risentimento per gli insulti e le minacce non hai avuto dubbi, ti sentivi mia amica e mi sei stata accanto.

Tra alti e bassi gestibili siamo rimasti amici fino al terzo anno, anche se non perdevo occasione di ricordarti quanto tu mi piacessi e quanto avrei voluto essere più di un amico. Abbiamo trovato il modo di riderci sopra, tu un po’ ti divertivi e un po’ sopportavi. In un corso naturale degli eventi ti saresti probabilmente allontanata da me, ma vivevamo nell’artificiale situazione di una classe scolastica, ogni giorno dovevamo passare qualche ora insieme. E io ne ero assolutamente felice, ma so, e forse lo sapevo anche allora, che averti sempre attorno era deleterio anche per me. A parte noi due comunque, il mio umore generale andava lentamente peggiorando e avrebbe continuato così per parecchi anni. Non sono costituzionalmente depresso, sempre che qualcosa del genere esista davvero, ma le mie frustrazioni e un senso di immobilità nella posizione in cui mi trovavo non mi ispiravano prospettive rosee sulla mia vita. Di nuovo, stavolta in modo più ponderato, meno isterico, prendevo in esame il suicidio tra le possibilità.

Intanto non mi andava più bene neanche il nostro rapporto, non mi piaceva se per qualche giorno ti “distraevi” dall’essermi amica, in occasione di una gita scolastica ho ricominciato a vederti come un’egoista insensibile. La mia reazione nei giorni seguenti è stata assillarti sempre di più, nei momenti meno opportuni, volendo convincerti che mi stavi trattando male. Alla fine sei stata costretta a chiedermi di lasciarti stare per un po’, forse volevo vedere se saresti arrivata a tanto. Detto quel che avevi da dire, ti sei allontanata verso la scuola con una nostra compagna, una mia amica anche lei. Quasi tutti erano già entrati, la scuola era sempre più vicina, la rabbia faceva un male che non provo neanche a descrivere. Lo meritavo tutto io, quel male? Non ce la facevo, dovevo passartene un po’. Ho preso la rincorsa e ho dato un calcio al tuo zaino facendoti rotolare per terra. Poi tutti sono rimasti di sasso. Anche io, che non avendo pensato al dopo non ho trovato di meglio da fare che girarmi e andarmene.

Per fortuna non hai riportato danni rilevanti. Per mia fortuna tu e i tuoi genitori vi siete fidati. Non c’era da temere che si ripetesse un fatto simile, ma su questo avevate solo la mia parola. Non sono finito fuori dall’esclusivo club di quelli con la fedina penale pulita. Ora sto scrivendo un articolo il cui messaggio dovrebbe essere denunciate, denunciate, denunciate. Per proteggersi da una prossima volta che potrebbe essere tragica. Perché non si ha diritto solo alla sicurezza fisica, ma anche a essere lasciati in pace. Perché non sono un’ingiustizia solo le botte o lo stalking, ma anche la paura che si ripetano.

E non è che io la pensi diversamente, ma questa è l’unica storia che conosco di persona su stalking, violenza, molestie o qualunque sia il termine più adatto a quell’esperienza; e sinceramente, tornando indietro, non preferirei essere denunciato. Però chi può sapere come sarebbe andata, magari meglio anche per me. Vedi, alla fine è sempre colpa tua.

 

 

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