Quei 1.653 tesori rubati da Hitler e ancora prigionieri di guerra

da giannellachannel.info

Dopo Sette , altri periodici come Oggi e la TV (la Rai nel programma Il Giro prima del Giro, TgCom24 e Chi l’ha visto?) hanno accolto e presentato con risalto il mio nuovo libro Operazione Salvataggio (Chiarelettere), dedicato alle storie degli eroi sconosciuti che hanno salvato l’arte dalle guerre.Ma devo a un quotidiano (Il Fatto del lunedì, 9 giugno, curato dal giovane e bravo Ferruccio Sansa) e a un recensore eccellente (Tomaso Montanari, 43 anni, fiorentino trapiantato a Napoli dove insegna Storia dell’Arte Moderna all’Università ‘Federico II’) la sottolineatura di un giallo che presento nelle pagine iniziali del mio libro.

Scrive Montanari:

… La notizia più clamorosa contenuta nel libro Operazione Salvataggio di Salvatore Giannella è che l’Italia deve ancora recuperare 1.653 opere d’arte elencate nel famoso rapporto di Rodolfo Siviero (il più celebre cacciatore di opere d’arte trafugate durante la guerra), e con ogni probabilità ancora disseminate per la Germania e per l’Europa dell’Est. E neppure il pugno di addetti ai lavori che ne è al corrente, sa forse che da anni nessuno lavora per tentare di riportarli in patria. Il libro contiene una rarissima intervista all’avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli, che fino al suo recente pensionamento è stato a capo della commissione che si occupa del recupero delle opere d’arte esportate illegalmente dall’Italia.

E se Fiorilli parla dei successi ottenuti nel contrasto ai furti d’arte recenti, egli denuncia il totale disinteresse nei confronti di quelle 1.653 opere inghiottite dalla Germania hitleriana. «Sono in difficoltà a dire queste cose, ma il mio dovere di cittadino me lo impone. I ministri che si sono succeduti alla guida dei Beni culturali non si sono assolutamente interessati di questi problemi, anzi si sono opposti a queste attività. Il neoministro Dario Franceschini si avvale della diretta collaborazione degli stessi personaggi che affiancavano i precedenti ministri. Il che mi fa essere pessimista sul futuro». In effetti i politici, ma anche i diplomatici, non hanno alcun interesse a mettere sul tavolo delle relazioni internazionali una questione potenzialmente assai imbarazzante: e così il dossier di Siviero rimane in attesa di tempi e di uomini più coraggiosi e più giusti.

Uomini come quelli che, per nostra fortuna, non mancarono durante l’ultima guerra. Quello che esce dal libro con maggiore vivezza è Pasquale Rotondi, il grande amore di Salvatore Giannella, che ne ha pubblicato l’avvincente diario degli anni della guerra (L’Arca dell’Arte) e gli ha dedicato una puntata del programma Rai La Storia siamo noi

Dal mio libro “Operazione Salvataggio”. Capolavori ancora prigionieri di guerra

Tomaso Montanari

La guerra per l’arte continua ed è una guerra spesso combattuta nel silenzio, interrotto solo di tanto in tanto da notizie che lasciano ben sperare.

Nel giugno del 2007, in una cassaforte della Zürcher Kantonalbank di Zurigo, viene ritrovata parte della collezione di Göring. Quindici dipinti in tutto, fra cui opere di Dürer, Kokoschka, Monet, Renoir, Sisley. A depositarli era stato nel 1978 Bruno Lohse, un esperto d’arte che aveva fatto da consulente a Göring e ad altri gerarchi all’epoca della «grande razzia». Il ritrovamento si deve alla denuncia da parte di un’anziana signora, erede della famiglia ebrea Fischer, alla quale i nazisti avevano confiscato l’intero patrimonio. In seguito alla morte di Lohse, avvenuta nel 2007, alla signora era stato restituito in forma anonima un capolavoro di Pissarro facente parte della collezione di famiglia. Da lì sono partite le indagini che hanno portato al ritrovamento della cassaforte.

Nel novembre del 2013 arriva la notizia di un nuovo ritrovamento. In un appartamento di Monaco di Baviera è stato scovato un tesoro di 1500 opere d’arte, per un valore stimato di oltre un miliardo di euro, che erano state confiscate dai nazisti durante il Terzo Reich e che si credevano ormai perdute. Fra i dipinti riportati alla luce, capolavori di Chagall, Klee e Matisse accatastati in un ripostiglio, tra cassette di frutta e barattoli di fagioli, della polverosa casa dell’ormai ottantenne Cornelius Gurlitt (l’uomo del tesoro di Hitler è morto martedì 6 maggio 2014, Ndr), figlio dello storico mercante d’arte Hildebrand Gurlitt. La polizia è arrivata alla scoperta dopo che nel settembre del 2010 Cornelius era stato fermato su un treno di ritorno dalla Svizzera con 9000 euro in contanti, in una delle sue sporadiche trasferte per vendere esemplari minori della sua collezione, sempre alla luce del sole e in modo legale: una sorta di rendita del patrimonio paterno che gli aveva permesso di sopravvivere nell’ombra per decenni, senza mai un lavoro, una pensione né un numero di previdenza sociale. La casa di Monaco non era l’unico nascondiglio. In un altro appartamento di Salisburgo le autorità tedesche hanno trovato altre 60 opere della collezione, tra cui dipinti di Picasso, Renoir e Monet.

Nonostante i fortunati ritrovamenti di Zurigo, Monaco e Salisburgo e i tanti sforzi eroici di antichi e moderni Monuments men – da quelli delle forze alleate angloamericane, ai salvatori dell’arte italiani, fino agli eroi più recenti –, sono però ancora tante le opere d’arte «prigioniere di guerra» che mancano all’appello.

Restando solo ai beni trafugati in Italia durante il fascismo e la Seconda guerra mondiale, l’elenco è lunghissimo. Non sono mai tornati almeno 1.653 pezzi: 800 dipinti, decine di sculture, arazzi, tappeti, mobili, strumenti musicali, tra cui violini Stradivari, e centinaia di manoscritti.

Le opere trafugate si trovano ancora in Germania e Austria e, in parte, nella ex Unione Sovietica, dove furono portate dall’Armata rossa dopo il crollo del Terzo Reich e l’invasione dei suoi ex territori. Tra queste, capolavori di Michelangelo, del Perugino, di Marco Ricci, di Tiziano e Raffaello, Canaletto e Stradivari, oltre a sculture greche e romane e a tavole di primitivi di ottima fattura.

Per riavere queste opere, dopo il lodevole impegno del ministro plenipotenziario Rodolfo Siviero, nel dopoguerra a capo dell’Ufficio interministeriale per il recupero delle opere d’arte, al quale dobbiamo il ritorno in patria di numerosi capolavori e altri beni culturali come libri, biblioteche, documenti e archivi, è necessario un duro lavoro diplomatico e giudiziario, affiancato a quello investigativo dei carabinieri del Nucleo tutela del patrimonio culturale (trecento uomini articolati in dodici nuclei presenti in tutto il territorio) e a quello dei cacciatori di tesori perduti della commissione speciale per il recupero delle opere d’arte guidata dall’avvocato di Stato Maurizio Fiorilli. Alla «squadra Fiorilli» si deve il recupero di quasi duecento preziose opere d’arte trafugate, ma il futuro del team non è luminoso: se ne teme lo smantellamento, nonostante i suoi pur faticosi successi di «diplomazia culturale».

Il problema fu ben fotografato da Antonio Paolucci, già ministro dei Beni culturali e oggi direttore dei Musei vaticani: «Fra gli anni Settanta e Ottanta, pochi, in Italia e all’estero, avevano vero interesse ad aprire un duro contenzioso sulla parte residua, più controversa e complicata, del patrimonio artistico italiano disperso per cause belliche. La situazione politica internazionale, ancora attraversata dal muro di Berlino e condizionata dalla logica dei blocchi, rendeva inopportuna, se non addirittura impossibile, l’apertura di un negoziato a tutto campo che era facile prevedere particolarmente minuzioso e contrastato. In sostanza – avrà pensato qualcuno – dal momento che l’Italia aveva già ottenuto indietro, in applicazione del trattato di pace, la parte più ragguardevole del suo patrimonio culturale illecitamente trasferito, non era il caso di turbare gli equilibri e le convenienze internazionali a tanti anni dalla fine della guerra, con atti di zelo eccessivo per il recupero della quota residua del patrimonio stesso. È molto verosimile che una riflessione del genere abbia trovato udienza nell’Italia di quegli anni, se si pensa al clima politico e, soprattutto, alla congiuntura internazionale».

Del resto Siviero moriva nel 1983 e quattro anni dopo chiudeva anche l’Ufficio recupero di via degli Astalli. La raccolta veniva quindi data in affidamento all’Archivio storico diplomatico, un ufficio dipendente dalla Farnesina. Dopo la caduta del muro di Berlino, la situazione è andata favorevolmente evolvendo. I mezzi d’informazione e il pubblico nazionale e internazionale si sono allertati e fatti più sensibili ai problemi del patrimonio artistico e culturale.

Vogliamo augurarci che questo mio libro faccia crescere quella consapevolezza, oltre che nel pubblico, anche fra i politici ai quali si deve chiedere di sviluppare le iniziative legislative e amministrative nell’unico modo davvero efficace: investigare sui capolavori «ultimi prigionieri di guerra» e, laddove possibile, recuperarli.

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