Razzismo, malattia cronica

di Marco Riboldi

Si fa presto a dire razzismo. E soprattutto si fa presto a considerarlo una sorta di infiammazione causata da momenti storici un po’ complicati, curabile con qualche pomata culturale a pronto effetto.

Cerchiamo qui di capire perchè le cose siano un po’ più complesse e  come e perchè il razzismo vada considerato non una patologia insorgente improvvisamente, ma una piaga che si è cronicizzata.

Parleremo soprattutto di cultura europea, ma in effetti useremo questo aggettivo come sinonimo di “occidentale”, comprendendo quindi, almeno in una certa misura, anche gli Stati Uniti.

Questo scritto sarà necessariamente limitato e potremo solo dare qualche cenno di  una questione che non può essere qui trattata in modo approfondito.  Speriamo almeno di riuscire a dare un’idea della questione nei suoi termini generali.

Per definire i caratteri generali del razzismo possiamo affidarci ad alcune definizioni elaborate nel corso degli ultimi tre secoli almeno e che possono ben venire sintetizzati  secondo un classico  schema di J. Evola, forse il massimo teorico del razzismo italiano di epoca fascista.

  1. l’umanità è una astrazione: non c’è il “genere umano”, ci sono varie razze differenti e disuguali.
  2. ad ognuna di queste differenti razze corrisponde un differente spirito, che determina e condiziona, in una sorta di corrispondenza biunivoca, la diversità visibile nelle caratteristiche fisiche, culturali, storiche
  3. una razza può, più o meno, mescolarsi ad altre e così contaminare la propria purezza originaria, che si perde nella mescolanza di sangue.

Dove trovare le radici di questi ragionamenti?

Nel XVIII secolo si sviluppa in Europa un pensiero che spinge sempre più rapidamente verso una rivoluzione culturale di tipo scientista, che culminerà con il positivismo e la sua esaltazione della scienza come unico rimedio ai mali dell’umanità.

L’Illuminismo, nel suo sforzo di riformare la mentalità comune, di impronta cristiana, diede ampio risalto all’idea che ci fosse una profonda unità tra il corporeo e lo spirituale, immaginando un cammino dell’umanità profondamente condizionato dal meccanicismo naturalistico.

Detto in altri termini: l’uomo veniva considerato parte di un unicum, che si sviluppava in modo tracciabile dalle forme di vita più semplici a quelle superiori, tutte sottoposte alle leggi puramente materiali della natura.

In questa visione,  si finiva ovviamente per vedere nella parte  più progredita dell’umanità, l’ Europa occidentale, non solo il risultato di un cammino storicamente studiabile, ma anche il punto di arrivo di un perfezionamento della specie umana che trovava nell’uomo bianco occidentale il punto più alto di sviluppo, relegando altri popoli,  altre “razze”, agli stadi meno evoluti.

Come facilmente comprensibile, l’evoluzionismo darwiniano, volente o nolente l’autore, fornì a questa mentalità un eccezionale combustibile per continuare a viaggiare .

L’uomo bianco occidentale, simbolo del massimo traguardo evolutivo, si contrapponeva ai  popoli di diverso colore  che invece erano frutto di precedenti fasi del cammino umano.

Nasceva così una sorta di “darwinismo sociale” che  costituiva un ottimo sottofondo culturale per le conquiste coloniali e giustificava l’espansione imperialista.

La parte di umanità più evoluta, superiore,  ha il diritto e il dovere di conquistare il mondo per civilizzare i popoli meno evoluti, i quali comprenderanno, prima o poi, i vantaggi di tale civilizzazione (sarà un po’ il tema della celebre poesia di Kipling su ”Il fardello dell’uomo bianco”, o almeno la sua interpretazione più corrente, forse anche oltre le intenzioni dell’autore).

E non sorprenda che questo avvenga nel secolo della Rivoluzione Francese e della sua triade “Libertà, Fraternità, Eguaglianza”: questo motto riguardava solo la borghesia europea  (e nemmeno tutta, come scoprirono presto molti, francesi e non) non certo tutti gli uomini.

Se l’Europa sceglie quindi di affidarsi ad una visione tutta scientista e materialista, inevitabile che vengano travolti valori che provengono da differenti sensibilità culturali, primo tra tutti l’universalismo cattolico, che, pur con qualche incertezza iniziale, più pratica che teoretica, aveva saputo ribellarsi anche nei suoi massimi esponenti a qualsiasi visione che escludesse dalla piena appartenenza al genere umano i popoli con la pelle di diverso colore. Gli interessi materiali del colonialismo, infatti, non impedirono di mantenere chiara l’idea cattolica della comune appartenenza alla specie umana salvata da Cristo, anche se cedimenti concreti a sistemi schiavistici e di sfruttamento non vennero evitati. (andrebbe sviluppato qui il discorso sul protestantesimo, che secondo alcuni autori fornì qualche giustificazione teorica al darwinismo sociale, ma la questione è troppo complessa e delicata)

Con lo scatenarsi di diverse forme di “scientifica” dimostrazione della diseguaglianza tra le “razze”, numerose testimonianze cominciano a giungere da ogni parte dell’Europa del tempo.

Così da una parte nascono osservazioni  provenienti da nuove discipline quali la frenologia e la fisiognomica, che pretendono di attribuire un valore spirituale alle differenze di misure e forme del cranio, del volto e in genere delle varie parti del corpo, dall’altra le stesse differenze morfologiche vengono indicate come tipiche di comportamenti anomali o criminali (celebre l’esempio di Cesare Lombroso, studioso italiano che deduceva la tendenza criminale dalle forme del cranio e del corpo).

A tutto questo si aggiunge il tema, sempre più incombente, della “purezza” della razza.

Lo sviluppo del colonialismo, con la sempre più intensa frequentazione di popoli lontani, porta con sé il tema delle relazioni personali, familiari, sessuali. Il tema viene presto affrontato sotto il profilo della “degenerazione” della razza, a causa delle mescolanze di sangue e poi, soprattutto nel ‘900, guardando con sospetto ad ogni “infiltrazione” di costume e culturale: si pensi al grave sospetto e poi alla censura feroce delle forme musicali derivanti dai neri americani, considerate “degenerate” e vietate nei fascismi europei.

I grandi teorici del razzismo europeo (per citarne alcuni: il francese A. De Gobineau, l’inglese H.S. Chamberlain  (da non confondere con il più celebre N. Chamberlain, primo ministro dal 1937 al 1940), il tedesco Rosemberg, teorico del razzismo nazista) elaborarono sistemi sempre più rigidi, non mancando, con tragica coerenza, di includere nel concetto di purezza razziale anche l’elemento della “degenerazione” dovuta a malattie o comportamenti sociali giudicati inaccettabili, con la conseguente programmazione di interventi di “purificazione”: eutanasia, sterilizzazioni forzate e simili provvedimenti.

Il timore di una contaminazione era ed è un terribile strumento di diffusione del razzismo.

Su tutto questo si stenderà il tragico manto dei terribili avvenimenti della seconda guerra mondiale.

Ma se, come detto, vi è un legame così profondo tra mentalità occidentale moderna e discriminazione, non possiamo pensare che la questione sia episodica o passeggera.

Negli USA, il governatore della California, nel 2002 ha ufficialmente chiesto perdono perchè il suo stato ha proceduto, nei primi 60 anni del 1900 ad almeno 60.000 sterilizzazioni forzate di individui “difettosi”, mentre non si sa bene quante siano le persone sottoposte a medesimo trattamento negli altri stati americani che avevano leggi del genere. Tragedie simili si riscontrano in altri paesi soprattutto dell’Europa del nord, mentre non serve aggiungere nulla a quanto tutti sanno del difficoltosissimo cammino dei diritti dei neri negli Stati Uniti… E si potrebbe continuare.

Fermiamoci qui, anche se ci sono moltissimi altri temi che potrebbero essere toccati (un esempio per tutti, la trasformazione del razzismo in un vero mito fondativo, quasi nuova religione del sangue: sicuri che sia finita con la fine del nazismo?).

Il problema rimane tutto nella questione iniziale: quanto la nostra testa di uomini dell’occidente ha recepito di tutta questa tempesta culturale? Quante scorie restano nella mentalità comune, nel costume diffuso, nella paura del diverso, nell’abitudine di giudicare il prossimo non per quel che fa, ma per quel che é? (alla fine, questo é il cuore di ogni razzismo: tu puoi fare quel che vuoi, ma resti sempre nero, ebreo, zingaro, ecc.).

Spero che questo scritto contribuisca a chiarire che la questione sta molto più nel profondo della nostra cultura di quanto ci potremmo aspettare, che semplicismi razzisti o “buonisti” (come si usa dire) non servono.

E che quindi il lavoro è arduo e lungo e che un Obama alla Casa Bianca non fa primavera.

In questo articolo manca del tutto una riflessione su quella forma specifica di razzismo che è l’antisemitismo: ne parleremo in un prossimo scritto.

2 dicembre 2020

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