di Davide Villa
Il primo turno della rassegna mondiale di Russia 2018 si è concluso con sorprese (Germania KO), conferme (CR7 è un giocatore veramente Galattico) e delusioni (avete visto per caso una maglia azzurro Savoia in campo?).
Tra le delusioni possiamo aggiungere poi anche la nostra squadra feticcio, il Perù, che è risultato sconfitto 1 a 0 nella prima partita contro la Danimarca, nonostante non lo meritasse affatto.
Merito sicuramente degli interventi miracolosi del portiere danese ma soprattutto di un rigore calciato alle stelle da Cueva sulle 0 a 0.
Ah i rigori, croce e delizia dei tifosi…ancora di più quando in palio non vi è solo la vittoria, ma anche l’orgoglio di una nazione.
L’idea che un fallo compiuto ad un passo da un goal potesse essere punito con un tiro “libero” da 11 metri venne da un portiere nord-irlandese sul finire del 1800 con l’intenzione, così nobile, che riletta ora sembra figlia di uno spirito sportivo forse dimenticato, di arginare la foga dei propri compagni nel difendere la porta dove lui stazionava.
Dal 1891, anno in cui fu calciato il primo rigore ufficiale, ad oggi, la storia del calcio, e particolarmente quella dei Mondiali, porta con sé ricordi indelebili relativi proprio a questo fondamentale.
Del resto, la natura stessa dell’estrema punizione del regolamento calcistico, definita con un filo di melodrammaticità dal Nobel spagnolo per la letteratura Camilo José Cela “la pena di morte del calcio”, la identifica come il climax della tensione di una partita.
Rimanendo nei confini italici (“Prima gli Italiani” urlerebbe qualcuno poco mondiale) potremmo quasi affermare di essere abbonati ai ricordi dolceamari che accompagnano i calci di rigore.
Limitandoci a quelli calciati dagli azzurri, la carrellata non può non partire dal ricordo forse più indolore e sbiadito, risalente a Spagna 1982.
Quanto peso ha nei ricordi di quella finale l’errore di Cabrini sullo 0 a 0 quando le immagini dell’urlo di Tardelli e della coppa sollevata da Zoff entrano con prepotenza nella memoria.
Diversamente, credo siano a tutti dolorosamente chiare le immagini dei tre mondiali in cui i calci di rigore, quelli a fine partita che nella nomenclatura calcistica si definiscono “tiri di rigore”, furono fatali per la Nazionale.
Le notti magiche di Italia ‘90 interrotte ad un passo dell’ultimo atto dagli errori di Donadoni e Serena.
La finale di USA ’94; quando lo sguardo perso di Roberto Baggio dopo il rigore decisivo sublima la figura di “eroe tragico” che così si addice al Divin Codino.
Anche a 24 anni di distanza quella foto sa tristemente emozionare…
Ultimi, ma non ultimi, i tiri di rigore a Francia ’98 con la traversa colpita da Di Biagio, il cui suono sordo scatenò la gioia dei cugini Bleus.
Per tre volte nei rigori, o meglio nella cosiddetta “lotteria dei rigori”, han fatto naufragio le speranze di vittoria di una delle generazioni più fulgide di talento calcistico che si siano viste in Italia.
Probabilmente è proprio per questa abitudine alla sconfitta legata ai tiri di rigore che la gioia di Germania 2006, dove nella corsa di Grosso in lacrime si sono sciolte le tensioni e le delusioni passate di tutti i tifosi azzurri, risulta così vivida e accecante.
La rivincita sulla sorte risulta sempre dolcissima…(PS: Au revoir, chers cousins!).
Ma allora perché c’è questa attrazione quasi magnetica per i rigori, crogiuolo di paure, preghiere ed ansie di intere tifoserie, specialmente se in campo ci sono gli Azzurri?
Storicamente siamo sempre stati affascinati dalle sfide uomo contro uomo.
Pensiamo alla medioevale singolar tenzone, campione contro campione per decidere l’esito di una giostra o di una battaglia.
Oppure, se cerchiamo una chiave di lettura ancora più datata, ricordiamoci dell’ascendente sul popolo Romano degli antichi ludi circenses.
Allora i gladiatori imbracciando armi diverse si sfidavano per la sopravvivenza scatenando il fanatismo del pubblico.
Oggi attaccante contro portiere, piedi contro mani, per decidere il risultato di una partita influenzando così l’umore di un’intera nazione. Parallelismi forse esagerati, ma sicuramente non mancanti di un certo rigore logico.
Certo suona strano che in un gioco di squadra così marcato come il calcio tanta attenzione sia focalizzata sul confronto tra singoli, ma il fascino di queste sfide affonda nelle radici della storia umana e il desiderio atavico di assistervi si manifesta ancora oggi.
Ma c’è dell’altro, qualcosa che va oltre la storia dei duelli, che rende l’atto del rigore così unico…
Una particolarità che risiede nel brevissimo intervallo che passa tra il fischio dell’arbitro e la rincorsa del giocatore.
Il momento in cui attaccante, portiere e spettatore catalizzano la propria attenzione sul goal, la parata, l’esplosione di gioia. Si pensa al futuro, al prossimo istante, a quello che ci aspetta.
Inconsciamente ci convinciamo che sarà esattamente come nella nostra testa, che tutto vada come desideriamo. Prima ancora che il tiro parta.
In questa frazione di secondo si manifesta una dei tratti più profondi e importanti dell’umanità: la speranza. Noi carichiamo quel pallone di speranza. E la speranza affascina sempre e da sempre; perché come narrava Talete “è il solo bene che comune a tutti gli uomini, e anche coloro che non hanno più nulla la possiedono ancora
Mai come in questi giorni, contro tutte le paure che vengono urlate a destra e a manca, abbiamo un tremendo bisogno di sperare. Ben venga che si torni a farlo, anche solo per un rigore. La speranza va allenata, senza sosta.
Speriamo allora insieme che la prossima sia una bella vittoria per la “nostra” Blanquirroja.
Forza Perù! I sogni sono spesso a 11 metri di distanza.
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