di Alfredo Somoza
La situazione internazionale è caotica, e su questo tutti concordano. Instabilità, mancanza di leadership, crisi ambientali, conflitti bellici. Tra le pieghe delle notizie si scopre, in realtà, che c’è un mondo che, dopo essere stato accusato di essere il responsabile della grande crisi economica mondiale iniziata nel 2007, gode di buona salute. È la finanza globale.
Nelle elezioni degli Stati Uniti, Wall Street ha sostenuto massicciamente la candidata sconfitta Hillary Clinton. Ma poi, con grande sorpresa, il candidato vincente – che, secondo la leggenda, rappresenterebbe i ceti deboli della società americana colpiti dalla globalizzazione – ha annunciato la sua intenzione di abolire la legge Dodd-Frank firmata da Barack Obama nel 2010. Quella legge federale, cioè, che ha modificato i meccanismi di regolazione dei mercati finanziari aumentando le tutele dei consumatori. Soprattutto, la Dodd-Frank pone dei limiti alle operazioni puramente speculative effettuate dalle banche.
Secondo Donald Trump, con queste regole le banche statunitensi perdono soldi: tradotto, le banche statunitensi hanno meno strumenti per speculare sui mercati internazionali rispetto ai competitor europei o cinesi. I titoli bancari quotati alla Borsa di New York hanno risposto a questa, che per ora rimane una promessa, con un balzo di 29 punti nei primi due mesi del 2017 e sono vicini a ripetere il rally del 2007, quello registrato pochi mesi prima dello scoppio della bolla speculativa che portò alla versione 2.0 della grande depressione. Poco pare sia cambiato, insomma, da quella crisi dei subprime che svelò in modo palese quanto la finanza avesse potuto lavorare con le mani libere, senza praticamente controlli su operazioni via via più speculative e a rischio. Solo Obama provò a porre alcune regole, ma probabilmente in modo effimero.
L’altra faccia della speculazione finanziaria rispetto alle operazioni sui mutui sono state le scorribande internazionali. Lo spostamento cioè dei capitali miliardari dei fondi di investimento o dei fondi pensionistici con il solo scopo di ottenere rendimenti sostanziosi. Negli anni 2000 una di queste grandi operazioni fu indirizzata sul Brasile, dove sbarcarono capitali speculativi a un ritmo di circa 40 miliardi di dollari annui. Secondo il FMI, la moneta brasiliana, il real, era all’epoca tra le prime quattro valute al mondo per movimentazione sui mercati di cambio, ma solo il 5% di queste transazioni erano dovute al commercio estero: il 95% erano scommesse della finanza internazionale sulla rivalutazione della moneta locale.
E il meccanismo funzionava, perché con la Cina assetata di materie prime e il continuo afflusso di capitali, il real si rivalutava, dimezzando il suo valore rispetto al dollaro. Così, chi aveva comprato moneta locale, oltre agli interessi sui bond, incassava la differenza di cambio una volta riconvertita la valuta. Un gioco molto redditizio durato anni che ha penalizzato fortemente il Brasile, che a un certo punto si è trovato con una moneta troppo forte per esportare in modo vantaggioso le sue materie prime e con un tasso di crescita distorto dai capitali speculativi. La ritirata dei capitali internazionali, insieme a questioni locali, ha segnato l’inizio di una crisi profonda nel Paese sudamericano ancora non finita.
La notizia quasi segreta di questi mesi è che è ripartita la corsa ai Paesi emergenti, con l’aumento di 800 miliardi di dollari della capitalizzazione dei listini di questi Stati e con due principali beneficiari, la Russia e il Brasile. E già si vedono i risultati, con la Borsa di São Paolo che torna in positivo e gli interessi pagati per i bond governativi che calano. In poche parole, la giostra è ripartita seguendo il solito percorso circolare. Poche regole, massa d’urto miliardaria, mercati emergenti dove speculare fino alla prossima crisi e al prossimo giro. Come se nulla fosse successo, come se questa situazione non avesse ricadute sui cittadini, come se non fosse in gioco lo stesso futuro della globalizzazione.