Sorrento è un intestino di strade incapace di digerire le troppe macchine che ingoia. A poco servono le zone a traffico limitato: il traffico convulso è parte inscindibile della costiera. I clacson – il cui uso sembra sulle prime eccessivo – rivelano ad orecchi attenti un linguaggio convenzionale e precisissimo, un segnale adoperabile per ogni indicazione utile all’automobilista. Tra le due corsie delle stradine senza lampioni – proprio a cavallo della doppia linea – il traffico si spalanca come il biblico mar rosso per tracciare la via allo sciame di motorini (ma soprattutto vespe storiche) sorrentine.
Ovviamente ci basta un pomeriggio per adattarci alle usanze del luogo e così – in sella a due scooter dall’alto chilometraggio – esploriamo la zona. La costiera sorrentina ma anche amalfitana parla inglese. Già, perché qui tutto è sommerso dai turisti stranieri (per lo più anglofoni) che restano incantanti dagli scorci di un’Italia da cartolina.
Si ha l’impressione che il Bel Paese viva in questo golfo, nei suoi colori e nell’arrampicarsi di casette bianche lungo i monti Lattari: ogni curva sembra impossibile credere che si tratti del nostro stesso paese. Anche perché a Positano, Praiano, nel fiordo (ma – a differenza dei finlandesi – sempre caldo…) di Furore e poi a Maori, Minori, fino ad Amalfi, non si sentono i nostri variopinti dialetti (se non il locale napoletano).
Come se i nostri connazionali ignorassero – o per lo meno non frequentassero – questo loro angolo di paradiso. Tanto per rendere l’idea, poco prima di arrivare al celebre duomo orientaleggiante della città che ha prestato il nome all’intera costiera, si legge su una lapide firmata niente meno che dal poeta Renato Fucini: “Il giorno del giudizio, per gli amalfitani che andranno in Paradiso, sarà un giorno come tutti gli altri”.
Un po’ sopra, comunque, svetta Ravello con i suoi belvedere: guardando giù a picco, in un anfiteatro naturale, ogni estate orchestre di musicisti suonano Wagner, che proprio qui compose i suoi capolavori.
Ilaria Beretta