di Fabrizio Annaro
La storia di sant’Ambrogio, vista con gli occhi dei nostri tempi, ha dell’inverosimile. Prima di essere nominato vescovo, Ambrogio esercitava funzioni politiche ed era il governatore, per conto dei romani, di Lombardia, Liguria ed Emilia. Era un catecumeno non ancora battezzato. La sede del governatore era Milano e Ambrogio, dopo la morte del Vescovo ariano Assenzio, dovette affrontare il conflitto fra cattolici e ariani che si contendevano il potere di nominare il nuovo vescovo. Un conflitto che mise in seria discussione l’ordine pubblico.
A fine novembre del 374 Ambrogio, allora in qualità di politico e governatore romano, si recò in una delle chiese della città, gremita fino all’inverosimile, dove presbiteri e laici, vecchi e giovani, cattolici e ariani, stavano discutendo animatamente sul nome del successore del vescovo Assenzio.
Ambrogio tentò di calmare la folla e ci riuscì grazie ad un discorso passato alla storia, con il quale invitava il popolo a fare la scelta del nuovo vescovo in un clima di dialogo, di pace e di rispetto reciproco. Il popolo accolse le sue esortazioni, anche perché era un governatore imparziale, stimato e ben voluto dalla popolazione, essendosi dedicato sempre al bene di tutti. La sua missione di funzionario pubblico sembrava compiuta con successo, quando accadde l’imprevisto che gli cambiò completamente la vita.
Qualcuno dalla folla, sembra un bambino ma la cosa non è confermata, gridò forte: “Ambrogio Vescovo” e l’intera assemblea, cattolici e ariani, vecchi e giovani, presbiteri e laici, quasi folgorati da quel grido ripeterono a loro volta “Ambrogio vescovo”.
Tutti d’accordo sul nuovo vescovo: Ambrogio, il loro governatore, anche se era un semplice catecumeno e per giunta senza ambizioni ecclesiastiche.
E Ambrogio? Si appellò all’imperatore Valentiniano protestando la propria inadeguatezza all’incarico datogli dal popolo. Non trovò una sponda favorevole nell’imperatore, anzi questi lo esortò ad accettare l’incarico. E lui accettò.
Fu così che nel giro di una settimana venne battezzato e poi consacrato vescovo, il 7 dicembre del 374. Cominciava così per lui una seconda vita.
Ambrogio è ancora venerato in questo giorno, il 7 dicembre appunto, giorno nel quale ricevette, ancora catecumeno, la nomina a Vescovo. Uomo carismatico, imparò a predicare, divenendo uno dei più celebri oratori del suo tempo, capace di affascinare perfino un intellettuale raffinato come Agostino di Tagaste, che si convertì grazie a lui.
Da Ambrogio, la Chiesa di Milano ha ricevuto un’impronta che si conserva ancor oggi, anche nel campo liturgico e musicale. Mantenne stretti e buoni rapporti con l’imperatore, ma fu capace di resistergli quando fu necessario, ricordando a tutti che «l’imperatore è dentro la Chiesa, non sopra la Chiesa». E’ rimasta la tradizione per cui l’Arcivescovo di Milano pronuncia, il 7 dicembre di ogni anno, il suo tradizionale discorso alla città e ai politici.
Certo oggi ci sembra paradossale che il popolo cristiano possa nominare il Vescovo della Diocesi più grande al mondo, competenza del resto affidata al Papa come da statuto ecclesiale. Quel che è certo per il popolo dei nostri tempi è l’impossibilità di acclamare Vescovo un funzionario pubblico o uomo politico.
Concludo con l’inno ambrosiano dedicato al Canto del gallo.
Creatore eterno di tutte le cose, che reggi la notte e il giorno fissi una misura ai tempi per alleviare il fastidio.
Luce notturna ai viandanti, che separa la notte dalla notte, il messaggero del giorno già canta ed evoca il raggio del sole.
Destato da quel canto Lucifero scioglie il cielo dalla sua caligine. La schiera degli erranti abbandona la via del crimine.
Il navigante riprende forza, s’acquetano le onde del mare; a quel canto, la pietra stessa della Chiesa Vede sciogliersi la sua colpa.
Alziamoci dunque con coraggio: il Gallo sveglia i giacenti e rimprovera i sonnolenti, il gallo accusa quanti rinnegano.
Al canto del gallo torna la speranza, è ridonata la salute agli infermi, è riposta la spada del brigante, torna la fede a chi è smarrito.
O Gesù, guarda chi cade, col tuo sguardo correggi il nostro errore, se tu guardi, le macchie cadono, e col pianto si dissolve la colpa.
Tu, luce, splendi ai nostri sensi, scuoti il torpore della mente: Te per primo canti la nostra voce: e a te sciogliamo i nostri voti.