di Roberta Romano
“Sara non sarà più”. È questa la frase che da giorni connota la cronaca italiana. Sara Di Pietrantonio, uccisa brutalmente dall’ex fidanzato all’età di ventiduenni, è l’ennesima vittima di femminicidio. La sua storia entra di diritto, purtroppo, nel lungo registro di morti passionali. Il punto è che di passionale, in un omicidio come questo, non c’è assolutamente nulla. La passione, intesa come desiderio amoroso, non sfocia naturalmente in atti di violenza e massacri. Non si uccide per passione. Non ci si procura una tanica di benzina per passione.
Non si guarda bruciare la persona amata per passione. Troppe volte questa attenuante ha “giustificato” atti osceni inducendo, addirittura, a provare empatia per il carnefice e non per la vittima. Certo, tra qualche mese Sara sarà solo un nome fra tanti, ma non sarà più una persona fra tante. Non ha più la sua vita, non potrà più crescere e sperare di diventare una donna.
E forse la sua storia servirà a smuovere le coscienze ancora intorpidite dal sonno che per tanti anni non ci ha permesso di guardare in faccia la realtà. Quella fatta di paura ed accondiscendenza. Quella in cui le ragazze non sono libere di indossare una minigonna senza ricevere apprezzamenti non graditi agli angoli delle strade. Quella in cui, di sera, tornare a casa da sole è pericoloso. Quella in cui se prendi la metro più tardi delle 22.00 è normale ritrovarsi ragazzi che ti importunano e che magari ti pedinano fin sotto casa.
E ancora, quella in cui il tragitto verso il portone rappresenta il momento più pericoloso della serata, perché sei sola e qualcuno potrebbe farti del male. Siamo abituati a tutto questo, ci sembra quasi normale, tanto che nessuno ci bada più. Ed è questo lo sbaglio più grave. Come può sembrarci sbagliato vedere un ragazzo che strattona la propria fidanzata sul ciglio di una strada se accettiamo, ogni giorno, di vivere nella paura e nell’ansia di essere avvicinate dagli sconosciuti?
Il cortometraggio del regista francese Maxime Gaudet, “In fondo alla strada”, mostra sullo schermo tutto quello che la nostra società tende a dimenticare. Si tratta della storia di una ragazza che deve tornare a casa da sola, di sera. La paura, le minacce, gli insulti e la corsa finale verso la porta vissute da una ragazza qualunque potrebbero finalmente aprire gli occhi di chi continua a giustificare ed a non capire che l’educazione al rispetto della donna è ormai di primaria necessità.
In un’unica ripresa la ragazza incontra un ubriaco che la insulta e la minaccia, una coppia di signori che finge indifferenza ed un ragazzo che sembra seguirla fino all’uscio. Il momento rivelatore è nel finale quando il fidanzato le dice che “va tutto bene” aprendole la porta. Poi comincia a lamentarsi per la sua giornata pesante non immaginando nemmeno quello che una donna deve subire soltanto nel tratto di strada verso casa.
Forse Sara sarà ancora, tramite il ricordo di quelli che hanno onorato la sua memoria con i drappi rossi, in giro per l’Italia. Forse Sara sarà ancora quando la violenza e l’abuso non saranno compagni silenti delle nostre giornate. Quando la civiltà tornerà ancora di moda. E quando la parola femminicidio uscirà definitivamente dai nostri vocabolari.