di Francesca Radaelli
Un uomo tanto ‘puro’ da essere se stesso fino in fondo, non solo a metà. Nel bene e nel male, anche al di là delle leggi della giustizia civile. Questo è Eddie Carbone, il protagonista di Uno sguardo dal ponte, interpretato da Sebastiano Somma nell’allestimento in scena al teatro Manzoni di Monza fino a domenica 15 novembre, per la regia di Enrico Lamanna. Scritto da Arthur Miller, il dramma è ambientato nella New York degli anni Cinquanta, o meglio nel quartiere di Brooklyn, tra gli emigrati italiani che abitano dall’altra parte del ponte rispetto a Manhattan, l’isola che rappresenta un’altra America rispetto al loro mondo, l’America dei sogni, quella del jazz e degli spettacoli di Broadway.
Quell’America in cui Catherine, la bella nipote diciassettenne che Eddie e la moglie Beatrice hanno cresciuto dopo la morte della madre, è impaziente di approdare: ha trovato un lavoro come stenografa che le permetterebbe di allontanarsi dall’ambiente un po’ soffocante di casa Carbone.
Quell’America che rappresenta anche il ’sogno’ del giovane e biondo Rodolfo, cugino di Beatrice, sbarcato clandestinamente a New York insieme al fratello Marco, ospite dei Carbone.
I due giovani, va da sé, si innamorano, ma ai loro progetti di matrimonio si oppone sin da subito il sentimento morboso che Eddie nutre per la nipote, fatto di attrazione, possesso e protezione. Nemmeno lui sa bene come definirlo. Sa solo che non vuole ‘lasciarla andare’.
Una storia che racconta del conflitto tra le generazioni, della dura vita degli italoamericani dell’epoca, tra lavoro al porto, bowling e boxe, del pericolo di essere scoperti per gli emigrati che giungono clandestini a New York e della difficoltà ad approdare davvero nell’America che si intravede al di là del ponte di Brooklyn. Temi anche piuttosto attuali, a ben guardare, ma inseriti all’interno dello ‘spaccato’ di un’altra epoca e di un altro mondo su cui il dramma getta la propria luce: l’ambiente misero e un po’ claustrofobico degli italoamericani di New York.
Un ambiente e una storia che prendono vita grazie alle parole di Alfieri, l’anziano avvocato che, da un angolo del palco, rievoca la vicenda, nel quale è stato coinvolto egli stesso e di cui, in quanto rappresentante della ‘giustizia civile’, non ha potuto che essere spettatore impotente. Perché sono altre le leggi e logiche che determinano lo svolgersi del dramma, che procede inesorabile verso la tragica conclusione, come una tragedia greca (non a caso nei primi allestimenti teatrali voluti da Miller la scena era dominata dal frontone di un antico tempio). Logiche e leggi non scritte che affondano le loro radici nella lontana Sicilia da cui provengono i protagonisti, ma anche oscuri sentimenti ancestrali a cui Eddie alla fine arriva a dare libero sfogo, arrivando a macchiarsi di una delle colpe più gravi per la società degli emigrati siciliani: il tradimento. E decretando la propria condanna proprio in base a quella legge non scritta che lui stesso, in quanto parte della comunità e di quel mondo, non può che riconoscere come legittima.
L’interpretazione di Sebastiano Somma, celebre per il suo successo televisivo e capace sul palcoscenico di una grande intensità interpretativa, riesce a rendere benissimo tutto lo spessore del personaggio di Eddie, lo scaricatore di porto che per una vita intera non ha fatto altro che lavorare ‘a testa bassa’ e ora è come sorpreso dal groviglio di sentimenti indefinibili che sente dentro di sé, da quelle pulsioni che non riesce a esprimere: “Non posso parlare”, ripete alla moglie e all’avvocato Alfieri.
La scenografia piuttosto semplice ed essenziale, che riflette la miseria in cui vivono i Carbone, fa da sfondo al ritmo vivace e quasi cinematografico della rappresentazione (nel 1962 dalla pièce fu tratto l’omonimo film di Sydney Lumet, con Raf Vallone e Jean Sorel), che prende forma e si svolge tutta nel ’piccolo mondo’ degli emigrati, in un’atmosfera densa che finisce per assorbire ogni cosa. Dando corpo e forma, anche attraverso la parlata siciliana dei protagonisti che è tratto caratterizzante di ‘quel’ mondo, a una vicenda torbida ma autentica, che ha inizio, svolgimento e fine alle porte del sogno americano. E su cui il vecchio avvocato, un po’ spettatore e un po’ narratore, invita a posare lo sguardo. Uno sguardo retrospettivo ma non troppo, su un mondo che forse appartiene al passato o forse no. Dall’alto di un ponte che forse non è mai stato del tutto attraversato.
Francesca Radaelli