di Claudia Terragni
La mattina ha un odore particolare. Aleggia un profumo tutto suo, fresco, delicato. Soffia un’aria leggera di sussurri e aspettative. Di intuizioni e di caffè.
Anche per Rocco Chinnici era così. «Lui aveva questa abitudine: la mattina portava il caffè a tutti quanti. Si alzava alle cinque, cinque e mezzo, faceva un primo caffè per sé, poi si metteva a lavorare. […] Dopo un paio d’ore si preparava e, nel frattempo, faceva un secondo caffè, apparecchiava un vassoio con le tazzine e veniva a svegliarci. Quando eravamo piccoli, a noi bambini ne metteva solo un cucchiaino nel latte, per farci sentire più grandi». Così ricorda Caterina Chinnici, magistrato, figlia maggiore del giudice siciliano.
Anche la mattina di 33 anni fa, tra i bagliori dell’alba si muoveva la sagoma di un uomo nei corridoi dell’appartamento di via Pipitone Federico, a Palermo. Anche quella mattina il magistrato aveva abbandonato presto le lenzuola calde per lavorare alle indagini del pool antimafia.
Ma quella mattina, all’odore del caffè si aggiunse quello del tritolo. «Io ed Elvira eravamo ancora in pigiama. Sentimmo un boato, un’esplosione. Sembrava la fine del mondo. Era successo qualcosa di tremendo a papà. Lo capimmo subito, senza neanche affacciarci al balcone. Scendemmo precipitosamente, dal terzo piano, giù per le scale. C’era fumo, fumo dappertutto. […] Lo scoprii io. Gridai a Elvira: “Guarda, è lì”. Non auguro a nessun figlio, anzi proprio a nessuno, di vedere con i propri occhi uno strazio simile. Ci chinammo, urlammo di disperazione, ci abbracciammo. Poi rimanemmo ammutoliti». Giovanni aveva solo 19 anni, era il figlio minore dei tre. Studiava giurisprudenza, oggi è avvocato. Sono dovuti passare 30 anni prima che la famiglia cominciasse a raccontare. L’aroma del caffè era dominato dal tanfo del tritolo, impregnato nelle narici.
Inevitabilmente la notizia della strage del 29 luglio 1983 imperò tragicamente su tutti i giornali. Il Corriere della Sera titolò: “Strage della mafia, ucciso un giudice. Per assassinare il capo dell’ufficio istruzione del Tribunale è stato impiegato un quintale di tritolo”.
Cosa nostra non poteva certo assistere passivamente al lavoro di quest’uomo. Da quando Chinnici, qualche anno prima, aveva istituito il pool antimafia con Falcone, Borsellino e Di Lello, era diventato particolarmente fastidioso. Neanche Cosa nostra poteva negare che una struttura collaborativa tra magistrati complicava non poco la sua fiorente attività. Se un solo giudice sa, basta farlo fuori per non farlo parlare. Si seppelliscono con lui anche le sue indagini. Ma se sanno in quattro, si devono ammazzare quattro persone. Sono ben quattro dosi di tritolo.
E Chinnici sapeva. La sua morte non fu imprevista. Fu annunciata da avvertimenti che diventarono intimidazioni, che diventarono minacce in un crescendo sempre più omertosamente rumoroso fino ad arrivare al boato dell’esplosione della Fiat 126 verde.
Emanuele Macaluso, sull’Unità, descrive Chinnici come «un uomo semplice e schietto; il suo viso ricordava la Sicilia contadina, pulita; i suoi occhi esprimevano bontà grande, intelligenza e fermezza». Secondo la figlia maggiore, il padre non avrebbe apprezzato l’appellativo di eroe: per lui il suo lavoro era pura normalità e grazie a questo ha trasmesso la “religione del lavoro” anche ai figli. Gli eroi non esistono. Tuttavia è doveroso riconoscere che alcune onorevoli vite “normali” hanno segnato la storia. Per questo Rocco Chinnici fu insignito della medaglia d’oro al valor civile.
E per questo noi lo ricordiamo oggi dopo 33 anni, con la sua storia che lascia dell’amaro in bocca, proprio come caffè non zuccherato.
Bibliografia: Fabio De Pasquale, Eleonora Iannelli, Così non si può vivere
Caterina Chinnici, Com’è lieve il tuo bacio sulla fronte