di Paola Biffi
Bill è un ragazzo silenzioso, di quelli che prima di parlare, pensano.
La sua famiglia ha radici che ricoprono buona parte del globo: il papà è siculo, la mamma di Washington, i nonni hanno origini irlandesi e ungheresi; detto in parole semplici, Bill potrebbe essere un arancino al ketchup accompagnato da una buona birra.
Da piccolo cresce con l’idea di un’America invincibile e giusta, come d’altronde ogni bambino pensa alla casa dei nonni, e quando nel 2001 la poltrona dello zio Sam viene attaccata da un gruppo di volti coperti, è facile decidere chi è il buono e chi il cattivo per un bambino di sei anni. Quando poi questi volti si chiamano Al Qaeda, Terrorismo, Islam, è difficile sfondare i pregiudizi verso qualcuno opposto ai propri principi, alla propria religione: un evento storico lontano come la battaglia di Lepanto, diventa il mito di un cristianesimo trionfante sul nemico sconosciuto e violento.
Ma la storia insegnata alle elementari è ben diversa da quella che si studia al liceo: qui gli eventi si incrociano in reti sempre più fitte, i buoni diventano cattivi e i cattivi buoni, e si scopre che la tela delicata che si viene a creare è la contemporaneità: non è più una questione di scontro, ma al contrario, di incontro. Se un bambino cerca le risposte nella lotta, un ragazzo si addentra nella trama, e cerca i nodi, i rapporti, le parole. Ecco che Bill compie la prima svolta sulla sua strada per ora dritta e a senso unico: con l’attentato a Parigi del gennaio 2015 diventa impossibile pensare in termini di opposti, le giustificazioni fin ora date o cercate all’occidente crollano di fronte alla nuova minaccia terroristica; “è inevitabile per un giovane” dice “mettere le mani in pasta”. A questo si aggiunge l’incontro con un ragazzo del Libano, che anziché parlare di guerra preferisce raccontare quanto sia bello il suo paese dalle mille culture.
È il momento per Bill di uscire dal silenzio dei suoi pensieri e iniziare a parlare, e lui decide di voler parlare arabo.
Si iscrive infatti alla facoltà di lingue orientali di Venezia, “perché se avessi scelto scienze politiche, avrei studiato l’oriente ancora con gli occhi del mondo occidentale, invece se so la lingua, posso parlarci, posso ascoltare”. Il gusto del silenzio, che lascia lo spazio per pensare, si riempie adesso di parole nuove, che, nel mondo di oggi tanto “globalizzato” attraverso reti invisibili, diventano materiale tangibile di nuovi rapporti.
Bill mi racconta oggi, dopo il primo anno, che i punti di incontro con la cultura araba sono molti, anche nelle storie più quotidiane, ma spesso ignorati. “Ad esempio nella letteratura: gli arabi leggono molto Dante, hanno addirittura una scuola dantesca, e lo stesso poeta ha costruito la struttura dell’Inferno ispirandosi a dei versi del Corano”.
Venezia è una città oggi malinconica, un gioiello antico tenuto nel cassetto, ma anche se ha perso i suoi mercanti di spezie, è ancora oggi, grazie all’università, un porto di culture: Bill diventa spacciatore di dizionari e strette di mano, con la giusta pretesa di essere testimone di come ogni frontiera, sia culturale o in cemento, possa essere scavalcata nell’incontro.
Paola Biffi