di Francesca Radaelli
Spett-attori, per una sera. Lo sono stati i partecipanti allo spettacolo-laboratorio teatrale dal titolo Oltre la paura, che si è svolto lo scorso sabato 23 marzo presso il Salone della chiesa di S.Ambrogio a Monza organizzato dalla Caritas cittadina. Il tema della serata, introdotto da Fabrizio Annaro, era quello dell’incontro con l’altro, la formula – estremamente originale, e forse un po’ inaspettata – quella del Teatro dell’Oppresso. Una metodologia teatrale, nata e sviluppatasi in America Latina grazie al regista brasiliano Augusto Boal, che porta lo spettatore a diventare protagonista dell’azione drammatica, stimolandolo a riportare l’esperienza simulata nella vita reale.
Guidati da Gigi Maniglia, esperto di ricerca teatrale e mediazione dei conflitti, i partecipanti alla serata sono stati chiamati a intervenire nella rappresentazione di un problema abbastanza presente nella vita delle parrocchie: includere nelle attività degli oratori, e gestire, adolescenti un po’ teppisti e problematici. Come Michele, il protagonista (invisibile sul palco) dello spettacolo in scena, il quale dopo averne combinate di cotte e di crude –dal ritardo sistematico agli allenamenti fino al dentifricio nelle scarpe dei compagni – vorrebbe rientrare a far parte della squadra di basket dell’oratorio.
Come dovrebbero comportarsi l’educatore Luca, l’allenatore Simone, il prete, la catechista, la mamma del ragazzino?
In che cosa sbagliano i personaggi in scena? Come potrebbero invece comportarsi per essere più efficaci?
Dal pubblico gli interventi sono numerosi e appassionati. La figura chiave è quella dell’educatore: è lui l’oppresso, tra i due fuochi della mamma di Michele da una parte e dell’allenatore+catechista dall’altra. Ma lui è anche quello che, secondo la maggior parte degli spettatori, deve trovare una soluzione. Dovrebbe parlare con il ragazzo. Capire il suo disagio. Convincere la madre ad accompagnarlo agli allenamenti. Convincere l’allenatore a valorizzarlo davanti ai suoi compagni di squadra. Cercare un’alleanza con gli altri personaggi, per il bene del ragazzo. Chiedere un incontro con il prete, la madre e l’allenatore in modo da mettere a fuoco il problema e concordare una strategia d’azione.
Chi sale sul palco tenta di far vedere come si dovrebbe agire, prova a reagire al problema e si scontra con le reazioni degli altri personaggi. Procede per tentativi, prima con una strategia, poi con un’altra, magari non risolve il problema, non ottiene il suo scopo, ma sperimenta una serie di azioni che potranno poi essere messe in pratica anche fuori dalla finzione.
Perché nel Teatro dell’Oppresso lo spettatore diventa attore, ha la possibilità di reagire all’oppressione in una situazione protetta, per poi affrontare con un maggior bagaglio di strumenti ed esperienze l’oppressione reale.
A fine serata la soluzione non è arrivata, Michele ha fatto il suo ritorno nella squadra di basket ma ha provocato l’infortunio del capitano ed è più odiato che mai dai compagni. L’educatore Luca, impersonato ora da uno spett-attore ora da un altro, ha provato in tutti i modi a risolvere la situazione, ma non è riuscito a trovare alleati negli altri personaggi.
Nessun lieto fine, insomma. Può forse sembrare strano, ma l’esperimento è perfettamente riuscito. Perché la palla, ora, passa dalla finzione alla realtà.
Lo spiega bene don Massimiliano Sabbadini, vice direttore di Caritas Ambrosiana, tirando le conclusioni della serata: “E’ giusto che la situazione non sia risolta, che rimanga la domanda, che tutti continuiamo a interrogarci su come aiutare Michele”, ha sottolineato. “Questa sera è stato messo in scena un metodo, che può essere un esempio importante per chi opera nei centri d’ascolto della Caritas parrocchiale. A partire dall’importanza di immedesimarci in chi ci sta di fronte, in chi magari viene a chiedere aiuto a noi. Di fronte a queste persone siamo chiamati a non essere solo spettatori ma davvero spett-attori”. Spett-attori capaci di agire, o almeno di sperimentare possibilità di azione. E soprattutto di accogliere quella ‘generatività’ che nasce dall’incontro con l’altro: “Ogni incontro genera qualcosa, può cambiare noi e il nostro modo di agire”, ha chiosato don Massimiliano.
La serata era cominciata con la lettura della parabola del buon samaritano. “Il sacerdote e il levita, vedendo l’uomo ferito dai briganti, passano oltre. Invece il samaritano decide di aiutarlo”, aveva sottolineato don Augusto Panzeri, responsabile Caritas della zona pastorale V. “È proprio questo ‘invece’ che ci deve guidare. Ci dice che forse si può rompere una situazione statica, che si può trasformare un modo di pensare che è dominato dalla paura dell’altro, e che non porta da nessuna parte.” La Caritas ci sta provando, a Monza: sta lavorando per aprire un punto di ascolto per le persone che gravitano intorno alla stazione, luogo temutissimo dai cittadini e attualmente presidiato dai militari durante la notte. Ma ognuno di noi, spett-attori della storia di Michele, nella realtà quotidiana è chiamato a provare a ‘rompere’, ad agire, a trasformare i conflitti -e le oppressioni – che ci si trova davanti.
La sfida della serata era attraversare la paura, con l’aiuto del teatro.
Ma la sfida vera è solo cominciata. Perché se andare ‘oltre la paura’ è sembrato possibile nella finzione, non resta che provarci anche nella realtà.