di Gabriele Nissim – Presidente di Gariwo
Se oggi gli intellettuali di fede o di cultura musulmana avessero il coraggio di esprimersi pubblicamente con gli argomenti di Tahar Ben Jelloun, non solo si farebbe un passo importante nella battaglia culturale e politica contro il terrorismo di matrice islamica, ma si toglierebbe anche spazio a quanti in Europa e negli Stati Uniti cercano di creare un clima di paura e di sospetto nei confronti dei musulmani.
Nel libro Il terrorismo spiegato ai nostri figli, Ben Jelloun si rivolge direttamente ai giovani, attraverso un dialogo immaginario con sua figlia, perché è consapevole che si tratta prima di tutto di sconfiggere una visione del mondo che, come tutte le ideologie, può creare dei falsi miti nel mondo giovanile. Ai nostri figli va detta la verità: hanno bisogno di parole scelte con cura, non è solo il sottotitolo indovinato del libro, ma rappresenta un modo di pensare di grande onestà intellettuale. Se non si affrontano tutte le verità scomode difficilmente si potrà vincere la paura tra la gente.
Le persone non sono solo spaventate perché i terroristi colpiscono a caso in tutti i luoghi della nostra vita civile, dalle piazze, ai mercati, ai teatri, alle metropolitane, agli aeroporti, ma anche perché non riescono a capire quali sono i possibili antidoti per porre argine a una spirale di violenza che sembra senza fine.
Ben Jelloun spiega a sua figlia che non bisogna trattare i terroristi “come se fossero dei pazzi, degli psicotici, o degli schizofrenici”, ma bisogna prendere molto sul serio il loro modo di pensare. Essi infatti agiscono con degli obiettivi chiari e definiti. Uccidono persone a caso nei luoghi della nostra gioiosa vita civile perché non pensano di colpire degli innocenti, ma individui colpevoli di condurre un’esistenza da miscredenti. Hanno spesso come riferimento lo Stato islamico, ma la loro missione va al di là di un riferimento ideale al Califfato, poiché si sentono come la lunga mano del Profeta che agisce per terrorizzare e punire la nostra società, in vista dell’espansione globale di un Islam che dovrebbe mettere a tacere quella che per loro è la vita decadente dell’Occidente. La nuova vita dovrebbe dunque per loro sorgere da una punizione, una sorta di apocalisse islamica, i cui effetti non si potranno cogliere nel mondo reale, ma piuttosto nell’aldilà.
Ben Jelloun è categorico nel respingere l’idea che costoro siano figure anormali o persone disturbate. “Pazzo è colui che non è responsabile di quello che fa, mentre i terroristi sono individui consapevoli, preparati da specialisti per uccidere e farsi uccidere.”
I terroristi infatti non provano nessuna vergogna nell’uccidere degli esseri umani, poiché sono convinti, che le loro azioni sono programmate a fin di bene. Essi non solo soffocano ogni forma di compassione nei confronti delle vittime designate, ma scelgono consapevolmente il suicidio perché sentono il dovere di portare avanti una missione. Sono dei volonterosi carnefici che poco prima della loro morte amano raccontare sui social network gli obiettivi delle loro azioni.
Ben Jelloun, spiega come i musulmani, se vogliono contrastare le radici del fenomeno terrorista, debbano guardare a quegli scheletri nell’armadio che hanno generato un Islam oscurantista e totalitario, come quello che è stato applicato in Qatar e Arabia Saudita e che è anche alla base dell’ideologia dei Fratelli Musulmani.
I terroristi di oggi non sono però solo degli oscurantisti, ma hanno introdotto dinamiche che stanno avvelenando le nostre società. La prima è l’idea di guerra santa che fa riferimento al concetto musulmano di jihad. Questa parola, spiega Ben Jelloun, dovrebbe esprimere in tempo di pace lo sforzo che ogni essere umano deve fare su se stesso per migliorarsi, per essere un buon musulmano che lotta per il bene e contro le ingiustizie. La jihad è un’idea pacifica di impegno personale che possiamo ritrovare in tutte le religioni, o persino nella filosofia classica quando si chiedeva agli uomini di praticare la virtù.
C’è però un aspetto ancora più inquietante nell’ideologia dei terroristi. Essi hanno rinunciato a pensare al miglioramento della vita e guardano soltanto ad un mondo perfetto dopo la morte. Non ha dunque senso per loro la vita, perché l’unica felicità possibile è quella che si può ottenere in un fantomatico paradiso dopo la morte. “Per loro la morte è una sorta di apoteosi, la realizzazione piena e completa di un obbiettivo”; colui che la raggiunge attraverso la jihad prova una gioia infinita, senza limiti, perché arrivando alla morte si assicura un percorso per il paradiso.”
Il paradiso dei jihadisti non ha niente a che fare con tutto questo. È la realizzazione dell’inferno. Il loro “paradiso” è infatti una sorta di nirvana per sfuggire a qualsiasi tipo di responsabilità nel mondo. Amano la morte per sfuggire ad un impegno nella vita. E quando si rifiuta il mondo, diventa lecito e persino piacevole uccidere il maggior numero di esseri umani. Quel paradiso diventa l’alibi per non provare pietas verso gli altri e diventare degli assassini. Immaginano che Dio li premierà per avere distrutto i luoghi gioiosi della convivenza e della pluralità umana che per i terroristi rappresentano il simbolo della decadenza umana.
Avere sostituito l’istinto umano alla sopravvivenza con il piacere della morte non solo permette loro di compiere le azioni più efferate, ma li rende anche euforici in tutto l’arco di tempo che precede le loro azioni. Si sentono eroi davanti ai loro amici. Ecco perché sono entusiasti di raccontare nei video su Facebook l’imminenza delle loro azioni. I giorni prima della morte rappresentano per i terroristi il momento della loro gloria effimera.
Estratto da: Tahar Ben Jelloun: “Ai nostri figli va detta la verità” di Gabriele Nissim, presidente di Gariwo
https://it.gariwo.net/editoriali/tahar-ben-jelloun-ai-nostri-figli-va-detta-la-verita-16861.html