di Claudio Pollastri
Il 13 marzo di cinque anni fa Jorge Mario Bergoglio diventava Papa Francesco, il primo Pontefice ad avere il coraggio di prendere il nome del Poverello d’Assisi. C’ero quella sera in Piazza San Pietro.
E ho avuto la fortuna di incontrare il Santo Padre argentino con origini italiane, anzi piemontesi, più volte per lavoro. Così, per festeggiare a modo mio il primo lustro in Vaticano del Papa “venuto dalla fine del mondo” ho raccolto in una pubblicazione consegnata a Sua Santità la testimonianza degli incontri ravvicinati con gli ultimi tre Pontefici: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e, appunto, Papa Francesco. Tre Vicari di Cristo visti da vicino profondamente diversi per personalità, storie private e modo di rapportarsi con la gente.
A partire proprio da Papa Francesco sul quale aggiungo soltanto qualche pennellata del ritratto che gli ho dedicato in più occasioni su questo sito mentre riserverò qualche rigo in più agli altri due Pontefici che non ho mai trattato per “Il Dialogo di Monza”.
Certo, parlare di Papa Francesco suscita sempre l’emozione immediata della gente, anche dei non credenti, per la sua semplicità, per il modo diretto di comunicare, la gestualità spontanea e fisica, per gli abbracci infiniti verso chi è disperato e in cerca di un attimo di calore umano. E poi c’è quel sorriso in certi momenti quasi infantile, ingenuo, che sa infondere coraggio, regalare fiducia in chi non riesce a intravedere la luce della speranza.
L’avevo seguito – come ho raccontato proprio sul “Dialogo” – nella visita al carcere di San Vittore a Milano dove le lacrime erano più disperate. Aveva saputo commuovere con la sua spontaneità e accendere un sorriso di fiducia con le sue parole semplici e cariche di speranza.
Standogli accanto si viene contagiati dal suo entusiasmo per la vita e dalla sua sorridente fiducia nella Provvidenza come si era affascinati dalla serenità e dal tratto di gentilezza innata di Benedetto XVI, il Papa Emerito che Francesco rispetta e ascolta come “un nonno prezioso e saggio che mi sa consigliare per il meglio”.
L’incontro con Papa Ratzinger era avvenuto a Milano nel Family Day del 2012. Ricordo il candore messianico del suo abito che richiamava il bianco dei capelli ancora folti e faceva vibrare nell’anima il preannuncio biblico di un infinito intonso a un amen dal Paradiso.
Gli avevo parlato, stretto la mano ancora ferma specchiandomi nel suo sorriso buono, gentile, sereno, delicato ma velato dalle sofferenze umane.
Con lo sguardo limpido dei cieli tersi della sua Baviera riusciva a trasmettere la forza interiore di un vero padre apostolico non più giovanissimo che però sapeva trascinare il popolo di Dio sul cammino della Fede nonostante le bufere mediatiche, religiose, politiche che minavano un fisico che non era mai stato di roccia.
L’incontro era per gli ultimi accordi sul libro a lui dedicato e per alcuni commenti sul Family Day mondiale. “Mi fa piacere – mi aveva dichiarato con l’abituale tranquillità di tono – collaborare per una pubblicazione laica dove la fede viene affrontata in stile giornalistico e non soltanto come argomento teologico. Comunicare le parole di fede attraverso gli articoli scritti in modo corretto rispettando la verità dei giornali è una missione importante. I giornali devono raccontare l’importanza della famiglia, ribadire con onestà qual è il ruolo anche sociale del nucleo familiare.
Un evento come questo che raggruppa fedeli di tutto il mondo nella città di Ambrogio dev’essere raccontato con tutta l’importanza e il significato che riveste. Bisogna guardare dentro la famiglia e pensare che la società è fatta di uomini non di numeri e di finanza.
La famiglia aiuta chi soffre e chi non ha più niente. La povertà è soprattutto spirituale e chi può contare su una famiglia non resta mai solo. Si deve avere fiducia nel prossimo e credere nelle potenzialità dell’uomo che si rivolge a Dio. Raccontare la famiglia è importante per un giornalista, vivere la famiglia è fondamentale per un cattolico”.
Ha invece l’alone nostalgico di una foto in bianco e nero dell’album dei ricordi l’incontro con Giovanni Paolo II a Milano nel 1983. Erano 567 anni che un Pontefice non veniva nella Città di Ambrogio.
L’emozione era a fior di pelle nell’avvicinare il primo Papa straniero dopo 445 anni di monopolio italiano (il primo pontefice polacco in assoluto). Un Papa diverso dai suoi predecessori che scalava le montagne d’estate, andava a sciare d’inverno, nuotava in piscina e da ragazzo avevo recitato e fatto l’operaio.
L’incontro era avvenuto (dopo un tour lombardo che l’aveva portato a Desio nella casa natale di Pio XI e a Sesto San Giovanni nel cuore della Stalingrado italiana dove la classe operaia sperava di andare in paradiso) in Arcivescovado alla presenza del cardinale Carlo Maria Martini, altra icona gigantesca della Chiesa del Ventesimo secolo.
Avevo preparato un breve elenco di domande da sottoporre a Papa Wojtyla, ma alla fine si erano ridotte a un breve e impacciato saluto. Il Papa aveva capito il mio imbarazzo e mi aveva messo una mano sulla spalla dicendo col suo sorriso polacco: “Coraggio!”. Gli avevo sorriso, d’istinto. Mi aveva ricambiato, d’istinto. Era un Papa epidermico.
Lasciava che le sensazioni del momento lo trasportassero. Sapeva ridere delle battute e cantava con i giovani, storpiando le canzoni con la teatralità di chi da giovane aveva calcato le tavole dei palcoscenici di Cracovia e aveva scritto commedie.
Mi avevano colpito il fisico d’atleta e la sua camminata decisa, ritmata, da scalatore. Osservazioni troppo terrene per chi puntava al soprannaturale alle quali rispondeva sdrammatizzando: “Sono sempre arrivato in cima alle montagne, anche se i sentieri erano impervi e c’erano i burroni. Ma ero sicuro di avere una guida Lassù che non mi avrebbe mai lasciato solo”.
Lo guardavo negli occhi azzurri, forse un po’ freddi per un uomo che avrebbe dovuto, per missione, regalare coraggio, amore e calore umano, miscelato con quello divino.
Il ciuffo bianco svettava sfidando il vento e il protocollo vaticano, come il fatto di non mantenere una compostezza curiale mentre ascoltava i discorsi ufficiali perché – ho sempre sospettato, come succede a
Papa Francesco – preferiva il contatto con la gente, le parole balbettate ma sincere, le frasi incomplete ma provenienti direttamente dal cuore: Giovanni Paolo II si passava la mano sul volto, appoggiava la testa sulle mani, si sistemava lo zucchetto, s’accavallava le gambe con gesti che sembravano rivelare della stanchezza o forse semplicemente noia.
Atteggiamenti forse inappropriati per un Papa ma non per un sacerdote di Wadowice che considerava l’attività sportiva e la dinamicità del fisico una parte fondamentale del cammino verso Cristo. Gli avevo chiesto se gli piaceva sempre camminare e fare dello sport. Si era strofinato le mani grandi da ex operaio e dopo qualche secondo con l’inconfondibile accento polacco mi aveva spiegato: “Lo sport è salute, è vita. Qualcosa, ancora faccio”.
Guardavo il Papa che veniva dall’Est e avevo la netta sensazione che in lui prevalesse sempre e comunque l’uomo che si rivolgeva ad altri uomini suoi fratelli: il Vicario di Cristo veniva dopo, molto dopo.
Era un Papa maschio, Giovanni Paolo Il, e in un secolo in cui l’immagine cominciava a essere fondamentale come il Ventesimo, i vescovi ispirati dallo Spirito Santo avevano scelto giusto.
L’avevo salutato stringendogli la mano anziché baciargliela e lui aveva accettato con un sorriso rassegnato il mio gesto laico.
Con lo sguardo fisso e l’azzurro che mi perforava l’anima mi aveva lasciato con una constatazione oggettiva e un augurio rasserenante: “Il mondo ha bisogno di Fede e il Bene alla fine trionferà sempre sul Male. Soltanto chi soffre può sedere vicino a Dio”.