di Aldo Germani
I muri visti da un treno sono il lato sciatto delle case. La vista peggiore, la meno curata, il retro di qualcosa che già vale meno per le rotaie che gli passano accanto e allora a chi importa se poi è messo male. Avanzi ammucchiati di ciò che davanti via via si consuma, polvere scomoda scopata sotto il tappeto. È degrado esposto dove si passa troppo in fretta per sapere a chi appartiene: non è di nessuno, peccato che alla fine sia di tutti.
Ti guardi intorno mesto, il viso spento dall’opaco di una facciata sporca. Sembra di stare dietro le quinte di un teatro: gli scenari appoggiati, i puntelli a sostegno di una compiutezza apparente, il lato grezzo della cartapesta che doveva restare nascosto. Il tuo treno è segnalato in ritardo, il cielo non è un granché e le facce di chi aspetta al binario sono altrettanti volti appassiti per mancanza di luce. Tutti, tranne uno.
Assiste divertito allo stesso deprimente spettacolo e non sembra coglierne il senso, guarda e non vede, osserva e non si fa contagiare dalla tristezza del posto. Gli interessano i treni: il rumore che fanno, la forma allungata, il muso da talpa, la forza imponente di quei dinosauri d’acciaio. Ce n’è uno fermo sul binario opposto al tuo e da dieci minuti non gli toglie di occhi di dosso.
La madre lo tiene per mano per paura gli vada troppo vicino. Al macchinista che a un certo punto si sporge arriva in faccia la voce che tu non riesci a sentire, coperta da un annuncio del mondo dei grandi. Vedi che parlano, l’uomo e il bambino, poi una mano che lo invita a salire, la madre che non molla la presa e allora salgono in due. Il tempo di dare un’occhiata, di sentirsi spiegare a cosa servono leve e bottoni, di giocare a guidare quel coso: treno, bisonte o astronave. E a un tratto senti suonare come suona un bambino, fingendo sia vero: un fischio dal nulla, incoerente, inatteso.
Chiudi gli occhi, cancelli quel grigio fondale, e vedi quello che vede il bambino: la vita anche quando ha un aspetto scadente, la magia dentro ciò che non riesci a capire. E i colori, non più dipinti sulle cose, ma negli occhi di chi ancora può guardarle con stupore.