di Enzo Biffi
Diamo una possibilità alla pace, pacifichiamoci.
Qualche anno fa, un bel giorno di febbraio, milioni di uomini e donne riempirono le piazze di tutto il mondo con un immenso slogan contro la guerra in Iraq: “non in nostro nome“. Quel canto pur schiarendo i cieli di cento città, non entrò nelle case dei signori della guerra.
Così guerra fu fatta anche senza quei milioni di nomi, e dopo di quella un’altra ancora e poi altre dieci, forse cento chissà, il conto delle guerre in corso non si riesce a tenere.
Sono guerre dichiarate, guerre nascoste, guerre lampo, guerriglie e guerre sante e civili. In Mali, in Mozambico, in Cecenia, poi Israele e lo Yemen, e non è forse guerra quella del terrore e del mediterraneo?
Ci sono troppi luoghi di guerre non dichiarate, paesi in cui nascere è una maledizione e i violenti hanno le stesse ragioni, gli stessi vestiti e soprattutto le stesse giustificazioni di sempre. Sono ragioni di stato, di compromesso e di equilibri, utili solo a giustificare mercanti e mercati insanguinati.
Si invertono facce e ruoli, tutto si confonde tranne la violenza che infliggono ai popoli, quella è limpida, chiara e fredda, uguale da sempre.
Fino a quel 15 febbraio 2003 mi era abbastanza facile esser pacifista, avevo abbastanza fede antimilitarista, solidi schemi generati da guerra fredda e le lotte antimilitariste avevano anche un loro look.
I pacifisti in quei tempi urlavano nelle piazze colorate, cantavano canzoni ispirate, diffondevano volantini e giornali e se l’utopia sembrava svelarsi, l’impossibile pareva realizzarsi. Gorbaciov, il nobel ad Arafat, gli accordi di disarmo, insomma quella che qualche azzardo definì :” la fine della storia”.
Illusi noi.
Il 15 febbraio 2003 fu la Waterloo della mia speranza pacifista fino a quel giorno così granitica.Il più grande urlo di pace di tutti i tempi non bastò, non servì a zittire le poche parole fredde dei guerrafondai.
Allora, come schiantati sotto il peso di quell’impotenza, il nostro canto si fece più lieve, ci ritirammo un po’ nel rifugio giù in cantina, un po’ arresi al bombardamento che fuori impazzava, sottoterra noi rassegnati ne attendevamo la fine.
Intendiamoci: il mondo pacifista non ha mai smesso di professare la sua fede e se perfino Papa Francesco torna a parlare di disarmo integrale e di minaccia nucleare, non posso non constatare che la crisi del pacifismo sia evidente.
Non è più di tendenza, si direbbe oggi, e manca anche un look. Eppure nessuno è contento, tranne i pochi e deliranti registi, il resto del mondo, miliardi di comparse, continuano a subire e subire e subire. Il mondo non migliora e non sembra voler migliorare e quindi, fingendo un’ingenuità che non ho mi chiedo : ma se tutta questa politica guerrafondaia e militarista altro non porta che a soddisfare l’ingordigia di pochi, perché i tanti non tornano a farsi sentire?
Mi viene perfino il dubbio che come in una specie di realtà capovolta il tanto si equivalga al tanto poco e diventi il nulla.
Ecco forse il punto: quella lontana manifestazione rivendicava un “noi” che abbiamo perduto. La sua forza, quell’essere espressione di un sentimento “mondiale” oggi non è più attuale.
Possibile che il rispetto della volontà di un popolo valga solo quando questo rivendica interessi propri e in quanto tali, divisivi ?
Penso che la genesi di ogni guerra si fondi sull’idea che esista un noi, superiore a un voi e oltre ogni retorica cercherei di ripartire da lì.
Sospendendo per qualche tempo il concetto di pacifismo ma riprendendo da subito il valore della pacificazione. Forse meno politico, forse più intimo, urge la ri-diffusione di questo nobile sentimento.
Penso che sia meglio ritrovare prima un senso di pace col mondo attorno, al supermercato, in macchina, col prossimo e con noi stessi. Meno aggressività, in ufficio, in campo, a scuola, sui social e chissà dove ancora.
Facciamo sentire una musica di festa nelle orecchie dei guerrafondai non solo quando minacciano nazioni o continenti, ma in ogni momento. Sarebbe meraviglioso immaginarli su una piccola isola in mezzo all’immenso mare a litigar fra di loro, pochi e isolati.
Se la cultura del conflitto, della supremazia e della morte viene elargita a piene mani tutti i giorni, e questa contagia e forma uomini violenti e pensieri divisori, allora deve valere anche il suo contrario.
Vi ricordare? “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”: ecco la vecchia e nuova speranza, alla fine siamo ancora li, siamo ancora all’inizio.