di Francesca Radaelli
Una sera estiva del settembre 1914, su una delle isole Ebridi, al largo della Scozia. È questa l’estate in cui ha inizio To the lighthouse, Gita al faro, il romanzo pubblicato nel 1927 da Virginia Woolf, un ‘classico’ del modernismo e un vero e proprio capolavoro della letteratura del Novecento. E’ ambientato in un’estate che si conclude dieci anni più tardi, quando la gita progettata dieci anni prima viene finalmente realizzata, e che diventa il simbolo di un tempo impossibile da misurare, se non all’interno della coscienza dei singoli.
In una sera estiva del settembre 1914, dunque, La famiglia Ramsay si trova in villeggiatura nella propria casa delle Ebridi, con alcuni ospiti. Si progetta per il giorno seguente una gita al faro, meta sognata e desiderata potentemente dal piccolo James, uno degli otto figli dei Ramsey.
“Comunque”, disse il padre, arrestandosi davanti alla finestra del salotto, “non sarà bello”.
E le previsioni del signor Ramsay si riveleranno reali: la gita viene rimandata per il maltempo.
Passano gli anni, come dal titolo del secondo capitolo del romanzo. Scoppia la prima guerra mondiale, la signora Ramsay muore improvvisamente, e anche due dei figli, uno in battaglia, l’altra di parto. Sull’isola la vecchia casa dei Ramsay, abbandonata come “una conchiglia lasciata su una duna di sabbia a riempirsi di secchi granelli di sale”, va in rovina.
Dopo dieci anni, i Ramsay superstiti e alcuni degli ospiti di un tempo tornano nella casa. È ora che l’autoritario signor Ramsay e i due figli James e Cam riescono a fare la gita al faro progettata dieci anni prima, in cui avrebbero dovuto portare le calze cucite dalla signora Ramsey ai figli del guardiano. Ora invece vanno solo loro, a mani vuote, ciascuno immerso nei suoi pensieri e nei suoi rancori.
Proprio in questo sta la grandezza del romanzo, da molti considerato il capolavoro di Virginia Woolf. Nel raffigurare cioè in maniera potentissima l’isolamento tragico dei diversi personaggi nei loro dilemmi interiori, la loro impossibilità di entrare in una relazione vera gli uni con gli altri. È un romanzo in cui l’azione e la trama sono ridotte al minimo, in cui tutto sembra accadere nella testa dei personaggi.
È l’intreccio dei loro pensieri – o meglio dei flussi di coscienza, cifra stilistica del modernismo della Woolf, come del contemporaneo Joyce – a costruire il romanzo. Ciascuno è intento a seguire il flusso dei propri pensieri e dei propri sentimenti, che plasmano anche il panorama delle Ebridi e ricordano le onde del mare che circonda l’isola. La narrazione infatti procede attraverso un movimento regolare e quasi ritmico da una testa all’altra dei diversi personaggi, che paiono come imprigionati in sé stessi, nel flusso e riflusso delle loro coscienze individuali, nell’impossibilità di comunicare e quasi indifferenti alla relazione con gli altri.
Con un’unica eccezione. La signora Ramsay. L’incarnazione dell’accoglienza e dell’ospitalità, ma soprattutto della maternità. Un personaggio modellato dalla Woolf sulla figura della propria madre, morta quando lei era ancora adolescente. È la signora Ramsey che mantiene sotto le sue ali protettive gli altri personaggi, dai figli, al marito, a ognuno dei suoi ospiti. Grazie a lei quelle solitudini si uniscono nella casa, quell’estate. E i legami che la signora Ramsay ha creato sopravvivranno, nel ricordo di tutti, alla sua stessa morte.
Sarà anche grazie a lei che, dieci anni dopo, la gita al faro, che lei aveva tanto desiderato si facesse, si farà. E sarà grazie a lei che la pittrice Lily Briscoe, a dieci anni di distanza, riuscirà a terminare il dipinto iniziato in quella lontana estate, mentre guardava la signora Ramsay alla finestra.