di Claudia Terragni
Fare la spesa è bello. Secondo uno studio degli anni Cinquanta condotto da James Vicary, la casalinga americana media entra in uno stato di trance ipnoide quando vaga tra i labirintici scaffali del supermercato. Nei grandi magazzini è facile perdere il contatto con la realtà, incantati dall’immensa quantità e varietà di merce esposta.
Personalmente ho sempre trovato particolarmente affascinante il settore dei prodotti per capelli. Viene quasi automatico perdersi ad ammirare l’infinita quantità di shampoo di mille forme, colori, dimensioni e marche.
Un incantevole vortice di barattoli e bollicine. Quelli a base di erbe per capelli morbidi e setosi, quelli che donano volume alla tua chioma, i balsami energizzanti e rivitalizzanti . “Prenditi cura di te”, sussurra la suadente voce promozionale. “Volentieri, se non fosse che non mi serve uno shampoo. Non mi serve: non ho i capelli. Sono al terzo ciclo di chemioterapia. Alla bellezza di cinquantanove anni d’età (anzi, sessanta questa settimana!) mi è stato diagnosticato un carcinoma alla mammella. È il secondo tumore che devo affrontare nella mia vita.
Qualche strano gioco del destino ha deciso che un tumore alla seno destro non bastava e anche il sinistro voleva la sua parte. Beh, mi sembra giusto, no? Un po’ per uno, almeno ora sono pari! Quando esco di casa porto una parrucca. In realtà non capita molto spesso perché non esco molto. Sto male. Non me la sento. E in qualsiasi caso mi vergogno. Non mi sento molto presentabile. Sono brutta, il mio corpo non mi obbedisce. Non funziona. Traditore, prima si ammala e poi deve essere avvelenato per guarire. Fa schifo. Io faccio schifo. Mi dicono che sono più del mio corpo. Sarà anche vero, ma è l’unico mezzo che ho per vivere in questo mondo.
La mia persona non esiste se non in quanto corpo, questa ripugnante carne infetta. Se mi bruciano gli occhi quando leggo, non posso leggere; se mi fa male la testa quando ascolto la musica, non la posso ascoltare; se ho la nausea quando mangio, non riesco a mangiare; se mi sento svenire quando cammino, non posso camminare. C’è poco da fare. Facile dire che siamo più del nostro corpo, lo dite voi che state bene. Come le ragazze con le gambe da modelle, gli occhi blu e i capelli d’oro che sostengono che l’aspetto esteriore non è importante. Facile parlare per voi che siete belli. Facile parlare per voi che siete sani”.
Mia mamma non lo è, e spesso temo che siano questi i pensieri che le passano per la testa in questi faticosi mesi della sua vita. Della nostra vita, in realtà, perché non posso certo dire di non sentirmi completamente coinvolta in tutto questo . Sarebbe strano il contrario.
Ci sono alcuni momenti in cui vorresti essere Aladino. Un ragazzino come un altro che ha la fortuna di trovare la lampada magica. Tre desideri a tua disposizione, millantati da un genio più o meno simile a quello ciccione blu della Disney. Perché Aladino ha avuto a disposizione ben tre desideri e noi, misere persone reali, non ne abbiamo neanche uno? Non ne voglio tre, non pretendo troppo, me ne basta solo uno. Io vorrei solo poter proteggere la mia mamma. Poterle dire: “Aspetta faccio io”, come quando non arriva a prendere il nuovo barattolo di zucchero sull’ultima mensola della cucina. Non per mancanza di fiducia, anzi! Mia madre è una delle donne più forti che conosca e credo in lei enormemente, anche se probabilmente questo è ciò che ogni figlio pensa della propria madre. Ma vorrei vedermela io stessa con questo ributtante carcinoma che si è messo in mezzo alle nostre vite.
Preferirei dover superare io questa corsa a ostacoli, una chemio dopo l’altra. Perché sarei io quella messa alla prova e pagherei io le conseguenze di una sfida troppo grande. Però non posso. Non sono Aladino. È una gara che deve giocare da sola e io non posso che fare il tifo. Solo spianarle la strada e rendere almeno il paesaggio un po’ più piacevole. Un grande stadio gremito di tifosi con il sole che illumina la pista. Al massimo darle una spinta per farle prendere la rincorsa, come ha fatto lei quando ho imparato ad andare in bicicletta. E poi stare a guardare. E aspettare. Limitarsi a vederla correre e lottare senza poter intervenire. È difficile ammettere di essere impotente. Sono inutile. Scusa, mamma, vorrei fare di più.
La guardo e penso che è bella. Così, senza capelli con un semplice fazzoletto bianco in testa. Con gli occhi stanchi e le mani tremanti. È bella e forte. Quando torna a casa dopo ore di terapia, distrutta e avvelenata, e sorride. Sorride e mi racconta quello che ha vissuto, le persone che ha incontrato, le parole delicate che ha scambiato con le altre pazienti. È sempre lei, è la mia mamma, più bella che mai. E non credo che si renda conto di quanto possa significare per una figlia avere una mamma così: non mostra la sofferenza, non si lamenta, non lascia trasparire la rabbia che prova. Cerca di proteggermi anche ora. Vorrei tanto essere io questa volta a proteggere lei. Ma questo non è permesso, non siamo in una favola delle Mille e una notte. Adesso i ruoli sembrano invertirsi: tocca a me credere in lei. Sono io questa volta a vederla pedalare incerta su una bici senza rotelle. Sono io a fidarmi di lei, a scommettere che ce la farà da sola.
Forse Gaber non ci pensava. No, non ci pensava, quando ha scritto la canzone sullo Shampoo. E neanche papà ci pensava, quando da bambina lo ascoltavo suonarla con la chitarra. Non ci pensavano alla vera reale bellezza di farsi uno shampoo. Non solo dopo una brutta giornata, non solo “quando sei triste e stanco”. Dopo mesi di cura, con una nuova bellissima chioma da immergere in un’avvolgente, morbida marea di soffice schiuma bianca. Quello sarà davvero un bello shampoo. E chissà poi come ricresceranno i capelli! Dopo lo scorso tumore da lisci e castani, sono rispuntati mossi e brizzolati. Magari stavolta cresceranno bianchi. Magari non cresceranno proprio. E forse i capelli non serviranno. Forse basteranno gli applausi. Gli applausi, le lacrime, i fiori, i flash del pubblico in delirio di uno stadio straripante di tifosi. Ce l’hai quasi fatta, mamma. Siamo qua per ammirare te.